Alle volte, l’impressione è quella di viaggiare sopra un piano inclinato, perennemente in discesa. La volontà annichilita, i ricordi troppo pressanti, la paura di sbagliare è paura di rimanere impigliati, come in una ragnatela. Quando il passato si ripresenta, rischia di provocare l’effetto di una gomma americana sotto la suola delle scarpe, in una giornata d’estate: rallenta l’incedere del nostro cammino, appesantisce il passo e affatica ogni movimento.
Quando il passato torna a farsi sentire, se non è un ricordo lieto, spesso si tratta solo di un impedimento, che aumenta l’angoscia e l’inquietudine, risvegliando i ricordi di fallimenti e cadute, di spiacevoli sorprese, di eredità scomode, da cui ancora non ci si è saputi districare. Ci pare di camminare su strade inevitabili, di non essere padroni del nostro destino.
E molto spesso gli altri contribuiscono a mantenere questa convinzione. Il passato condiziona il presente. Un errore ne porterà altri, e poi altri ancora. Da una caduta non è possibile rialzarsi; se non per cadere nuovamente. Questa è la mentalità che ci pervade, che ascoltiamo, che viviamo. Che esclude il cambiamento e la possibilità di fare un’inversione a u. E togliere ad altri questa possibilità non è diverso dal toglerla a noi stessi. C’è l’incapacità di perdonare agli altri il torto che si è subito.
Ma talvolta, esiste un perdono ancora più difficile da impartire: quello da destinare a se stessi.
Condizionati forse dalla società stessa – che tende a etichettare le persone una volta per sempre (così che chi ha sbagliato non avrà mai la possibilità di essere considerato nel giusto) – i primi a fare fatica a perdonare noi stessi siamo proprio noi. Guardiamo all’errore come a una macchia non lavabile, come a un passo falso non rimediabile. Anche quando, invece, non è affatto così. Anche quando il rimedio è possibile e alla portata di tutti, la tendenza è quella di pensare alla “reputazione rovinata” e all’impossibilità di tornare come prima. Ci sono meccanismi complessi e condizionamenti infantili che rischiano di soggiogarci: “sono fatto così”, “so che reagisco così”, “finisce sempre allo stesso modo” sono ritornelli familiari con cui proviamo a giustificare la nostra incapacità di cambiare o, meglio, credere che un cambiamento vero sia possibile.
È qui che risiede la vera fonte della difficoltà di perdonare gli altri, o – meglio – di consentire loro di uscire da un’identificazione totale di questi ultimi con il proprio errore. E totale – in questo caso – rappresenta un’imprescindibile parola – chiave: perché naturalmente anche gli errori, come pregi, difetti, esperienze di ogni tipo fanno parte di noi, costituendo il nostro vissuto. Eppure, neanche la somma di tutto ciò è sufficiente a descrivere l’essere umano. Nessun essere umano è solo il proprio vissuto. C’è sempre un qualcosa in più che esonda, esuberante e che rappresenta, almeno simbolicamente, quell’abisso misterioso e inconoscibile (sia interpretato in modo assolutamente positivo, naturalmente!) che rende l’uomo – sempre e in ogni circostanza – ricco di fascino e di risorse insospettabile.
Oltre al perdono, c’è la necessità di azzerrare le paure del passato e consentire nuove possibilità e nuova fiducia, a se stessi e agli altri. È questo, in realtà, il passo più difficile e impegnativo per una vera riconciliazione che possa segnare un vero ed effttivo ricominciare da capo, di nuovo, da dove si era caduti. Ma non per cadere di nuovo, bensì per iniziare un nuovo cammino, non meno impegnativo e altrettanto ricco di sorpreso, con nuova grinta e nuova voglia di fare!
Questo passo è senza dubbio il più complesso, non perché sia meno umano, al contrario: il problema è che decidere di farlo significa contrastare tutto un retaggio culturale – forse ancestrale – secondo il quale, molto semplicemente, “chi sbaglia paga”. Non è forse quello che ci insegnano fin da piccoli?
Però è un principio insufficiente. Attenzione: non ho detto che è sbagliato. È giusto e necessario. Ma non sufficiente. Perché fermarsi a questo principio significa tarpare le ali alla potenzialità umana, significa ritenere che non c’è altro che lo possa identificare, oltre al proprio errore. È questo non è svalutante per un solo uomo, ma per tutti gli uomini: per l’intera umanità. Sì, perché dire “non credo alla redenzione di un assassino” significa dire “per me tu puoi essere solo e soltanto un assassino”. E questo può essere esteso a qualunque persona, qualunque sia la sua professione o la sua capacità. Ma è facile capire come non solo nel male ma anche nel bene, sia oltremodo riduttivo restringere le possibilità dell’essere alle concrete e comprovate abilità di fare, nel bene o nel male.
«Ma a che cosa serve – domando – guarire un uomo se resta lebbroso? A che cosa serve strapparlo alla lebbra, se nel nostro cuore resta lebbroso, se un uomo guarito, non contagioso, non può trovare una casa nel suo villaggio, non può sposarsi, non può costituire una famiglia, non può trovare lavoro? Bisognava dunque riabilitarlo socialmente. E devo dire onestamente che questa è stata la mia sfida più difficile».
Proviamo a sostituire, in questo breve estratto di Raoul Follerau, la parola lebbra con “omicidio”, “rapina”, “stupro” o qualsivoglia delitto e la parola lebbroso con “assassino”, “stupratore” o qualunque altro nome simile, che definisca un uomo in base al delitto commesso. Probabilmente, molti penseranno che esagero. Eppure il principio è lo stesso. Così come al lebbroso non basta guarire dalla lebbra per ritrovare il proprio posto nella società: è una condizione necessaria ma non sufficiente. È necessario che non sia più lebbroso anche agli occhi degli altri. E lo stesso si può dire per chi, commesso un reato, si trova nella condizione per cui non è sufficiente scontare la propria giusta condanna. C’è una condanna più atroce: quella di restare, per sempre, marchiati dal proprio errore.
Una differenza tra le due condizioni c’è. La malattia non è mai cercata, il crimine spesso è scelto. Ma fino a che punto è libera scelta? E dove è reazione (fragile, se vogliamo) a condizioni di asprezza e di disagio? Lungi dal giustificare, è innegabile come sia più costruttivo se ci prendessimo cura gli uni degli altri, piuttosto che pensare esclusivamente a come allontanarli. E il primo aiuto è senza dubbio quello della speranza di chi crede che esiste sempre un’altra possibilità: “per capire, per perdonare, per cambiare e tornare ad amare” (Francesco Tricarico).
«I Santi si son fatti Santi perché hanno avuto il coraggio di ricominciare daccapo ogni giorno» (E. P. Baetman):
questa frase, mentre ci incita a percorrere la strada della santità perché non è preclusa a nessuno, ci ricordi ogni giorno che non dobbiamo essere noi a sentirci in dovere di precluderla a qualcun altro!