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“Maestro, qual è nella Legge il più grande comandamento?” (Matteo 22,36)
Mi sembra di averli davanti agli occhi, i detrattori del divino.
Alla parola comandamento si ritrovano con la pelle d’oca, le mani nei capelli ed un’espressione di rifiuto dipinta sul volto.
Che il cuore pulsante di Antico e Nuovo Testamento, che palpita da millenni racchiuso in una manciata di versetti, sia qualcosa che comanda, un obbligo, ad alcuni va più ristretto di un maglione ispido e infeltrito.
Si potrebbero tirare in ballo decine di spiegazioni e contestualizzazioni, ma servirebbe?
Si potrebbe parlare di un’epoca, quella passata, in cui il rapporto con il divino era un atto comune quanto il respirare; non esisteva distinzione tra sacro e profano, l’essere umano era in perenne immersione in un mondo abitato dalla divinità.
Ma appunto, diranno alcuni, era epoca passata, oggi la si può considerare ancor valida? Suvvia, dai, siamo cresciuti…
Si potrebbe allora parlare di come la Legge – sempre per il medesimo motivo – non fosse un sistema di codici riservati solo agli esseri umani: da qui i comandamenti che si estendevano su scala orizzontale e verticale; ogni offesa all’uomo era anche un affronto a Dio, ed il mancato rispetto di Dio si traduceva in atti di sopraffazione verso il prossimo.
Ancora un volta, verrà detto, era epoca passata, oggi i codici penali e civili sono cambiati, che senso ha tirare in ballo Dio?
Che senso ha un comandamento che ti impone di amare Dio? Dov’è la libertà dell’uomo?

“Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio.” (Deuteronomio 6,4-5)
Adonai Elohenu, il Signore Dio-di-noi, Dio nostro.
Patèr hemòn, Padre-di-noi, Padre nostro.
Dio non è mai solo Dio e basta.
È il Dio che vuole essere di qualcuno. Mio, tuo, suo, nostro, vostro.
Di te che leggi, di te che cammini per la strada, di te immerso nel traffico, di te in ufficio o seduto su una panchina della stazione centrale.
Si lascia legare a te, si mette nelle tue mani ed accetta ogni tipo di rischio, anche quello di essere rifiutato.
Se nell’Antico Testamento era quel divino che atterrisce nella sua maestosità, nel Nuovo è un Padre che si prende cura dei suoi figli, che conta tutti i capelli del loro capo. Ma sempre il Dio di qualcuno. Anche là, sulla sommità di una croce, dichiarerà la sua appartenenza ad un Figlio che si è caricato tutto sulle spalle.
Elì, Elì… Dio-mio.

Voi siete le mie creature, dice Dio. Ma io sono vostro. Ma non di tutti, così, senza distinzione.
Sono tuo, ti chiamo e ti conosco per nome.
Sono tuo, non me ne vado dalla tua vita, non ti lascio solo, nemmeno nei momenti peggiori.
Sono tuo, perché Io-Sono: in un verbo di esistenza perenne racchiudo il mio nome ed una promessa eterna d’amore.

“Il Signore è uno.”
Adonai Ehad.
Chi si dovesse accostare al testo ebraico si accorgerebbe che la d – dalet – di fine parola ehad è accentuata e scritta con un carattere leggermente più grande del resto del termine. Un errore di stampa? La distrazione di un copista poco accurato, a sua volta copiata da altri, un po’ simile alla risposta sbagliata suggerita da un compagno a tutta la classe? Una pura casualità?
Il testo sacro, rotolo dopo rotolo, per secoli fu copiato a mano da solerti scribi e studiosi. Ma non esistevano post-it per appuntarsi le note importanti, o gli svariati promemoria degli apparecchi tecnologici, ci si arrangiava come si poteva. E sul testo biblico non si poteva e non si doveva sbagliare.
Ecco allora la dalet in bella vista. Due segni, uno orizzontale in alto ed uno verticale a destra, che dovevano incontrarsi ad angolo retto e leggermente sporgente.
Non doveva esserci alcun margine d’errore, perché se al posto di quell’angolo retto ci fosse stata una dolce curva la dalet si sarebbe tramutata in resh, una lettera che le è molto simile per chi è alle prime armi o semplicemente un po’ distratto o stanco.
E allora sì, apriti cielo.
Non più Ehad, bensì Aher.
Non più uno, ma altro.
Lontano, distante. Non più nostro, vostro, mio o tuo, ma qualcosa che non ci appartiene più e che ha tutte le possibilità di dichiarare il suo disinteresse nei nostri confronti.
Dio non è l’altro. Qualcuno da guardare con diffidenza, da occhieggiare di nascosto per poter capire chi sia.
Non sta dall’altra parte – di cosa, poi? – non si pone lontano, non prende le distanze dall’uomo.
Il Signore è uno.
Occhi negli occhi, si consegna agli uomini e non si mette sul piedistallo ammantandosi di alterità divina, ma si lascia interpellare a tu per tu, faccia a faccia. Sfacciato come non mai.

“Amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente.”
Amerai.
La traduzione italiana e quella greca perdono il passo con la complessità dell’azione verbale ebraica, parecchio lontana dal nostro modo di pensare e parlare ma non incomprensibile.
Amerai?
No, ama-tu.
Non un imperativo, né un futuro, non un condizionale.
Per gli addetti ai lavori si chiama qal qatal ed è l’aspetto semplice delle azioni, non intensivo o con significati particolari. È il verbo della quotidianità, di chi fa le cose con naturalezza, senza che nessuno lo costringa, senza la subitaneità di un’azione violenta.
Ama-tu.
Ama, nella condizione che è più leggera. Ama perché ti è semplice, in qualsiasi momento tu voglia farlo. Ama perché è nella tua natura, come il respirare.
Ama perché sei fatto per amore e per amare.
Con tutto il tuo cuore, anima, mente.
E’ l’essere umano racchiuso nella sua totalità, è l’unione di emozioni, intelletto e volontà.
L’amore di cui l’uomo è capace lo coinvolge tutto, non è una scelta fatta spegnendo il cervello. Dio non si ama mettendo da parte la razionalità. Fede e ragione non sono nemiche sul campo di battaglia o nei cartigli dei cioccolatini, ma ali per innalzarsi al di sopra di qualsiasi forma di odio e violenza.
Ama con-il-tuo-cuore… dentro-il-tuo-cuore, dentro-la-tua-anima, dentro-la-tua-mente.
La beth che precede i termini gioca con i significati ed i piani dell’essere umano.
È un con di accompagnamento, ma è anche un in che indica l’addentrarsi, un immergersi totale.
L’amore vero parte dal più profondo della nostra interiorità e ci abbraccia totalmente, ci coinvolge nelle azioni che facciamo, nelle emozioni che proviamo e nelle parole che pronunciamo.

Alla domanda dei farisei per trarlo in inganno – qual è il più grande comandamento? – Gesù risponde con quella che è la più bella dichiarazione d’amore di Dio nei confronti dell’uomo.
Io sono il Dio-tuo e l’amore che tu puoi dare non è una imposizione che ti incatena, ma è la tua stessa natura di essere umano a mia immagine e somiglianza.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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