Dalle pietre… alla luce
Il lungo brano evangelico della IV Domenica di Quaresima riprende esattamente dove eravamo rimasti, proponendoci il capitolo 9 della narrazione di Giovanni.
È quindi il caso di ipotizzare che il resoconto del “cieco nato” cominci proprio a partire da Gesù che, «nascondendosi, uscì dal tempio», come afferma nel finale del capitolo 8, poiché stava sfuggendo a un tentativo di lapidazione.
Forse non è avvenuto “cronologicamente” in questo esatto ordine, tuttavia non è difficile ipotizzare perché l’autore lo abbia scelto, nell’esposizione. La disputa coi Giudei, protagonista del capitolo 8, verte, in fondo sul ruolo di Gesù, la cui venuta vuole illuminare, per compierle, le Scritture precedenti. La guarigione del cieco mostra che la luce portata da Gesù non rappresenta una pura metafora, ma un evento, concreto e tangibile, nella nostra vita.
Bene e peccato
«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». (Gv 9,2-5)
Un uomo, cieco dalla nascita. Qual è il suo peccato? S. Agostino vede in lui la figura dell’umanità intera: ecco quindi che si può parlare del peccato originale e del suo ruolo nell’economia di salvezza. È con il peccato originale che sono entrati, nel mondo, le malattie, la sofferenza, il dolore e la morte. Prima non c’erano. Prima la vita era in comunione con Dio. L’Avversario, illudendoci che ci fosse preclusa una vita piena, in realtà ce ne ha offerta una “svuotata”, un po’ come capitata con quei frutti che, da un lato, sembrano finiti da tanto sono belli, ma l’altro lato svela l’inganno: il frutto è “bacato”, roso dall’interno da un verme che lo ha reso non più commestibile. L’uomo è afflitto da cecità dalla nascita, così come l’umanità, alla propria origine, commise il peccato originale. Questo lo condiziona ancora oggi, tramite la concupiscenza, che lo spinge a non “vedere” il bene, pur ricercandolo (come esemplifica l’espressione paolina: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» – Rm 7,18-19). Sotto questo aspetto, infatti, ovviamente, Gesù non nega che né lui né i suoi genitori siano sottoposti alle conseguenze del peccato originale o non ne abbiano commessi: quello che recide è il legame a doppio filo tra il peccato e la malattia.
Oltre il peccato
L’invito è, in sostanza, ad andare oltre una semplice riflessione di azione/reazione. Che è, in fondo, anche un invito a guardare un po’ più in là del nostro naso. Nessun uomo è un’isola: siamo legati gli uni agli altri e non possiamo illuderci che riuscire a schivare il male possa essere impresa da lupi solitari. Ogni colpo, dato o preso, colpisce tutto il popolo. Siamo nodi di una stessa rete e, se uno si scioglie, l’intera rete si indebolisce. Il ragionamento dei discepoli – che, spesso, è anche il nostro – , quindi, fa acqua.
Le opere di Dio
«Perché in lui siano manifestate le opere di Dio» rimane una spiegazione ambigua. Il riferimento è a quell’uomo cieco, di quella città di due millenni fa? Riguarda la condizione di cecità in generale? Riguarda la disabilità? È una risposta sull’origine del male. Come spesso accade, la ricchezza della Parola sacra ci consente una lettura su più livelli. Da una parte, senz’altro, possiamo pensare che sia una risposta alla domanda immediata dei discepoli, che si riferiscono ad un cieco in particolare, che è sotto i loro occhi. Se, però, come abbiamo visto in precedenza, il cieco è figura dell’umanità, ciascuno di noi può rivedersi in lui.
Guarigioni come segni
Nei sinottici abbiamo un doppio canale rivelatore: i “segni di potenza” (dynameis) e le numerose parabole; nel vangelo giovanneo predominano, invece, i “segni” (semeia) sulle tre parabole, esclusive della quarta narrazione (il buon pastore, il chicco di grano, i tralci e la vite). Si possono contare sette “segni”, con un dubbio, rispetto all’incontro con la samaritana. Vediamo, in questi “segni” affrontate le mille sfaccettature della “carne”: sposarsi (nozze di Cana – Gv 2,1-12); avere un figlio sano (guarigione del figlio di un funzionario reale – Gv 4,43-54); camminare (guarigione di un infermo – Gv 5,1-18); mangiare (pane – Gv 6); vedere (guarigione del cieco nato – Gv 9); morire (un morto ritorna in vita – Gv 11 e i tre segni, della lavanda dei piedi, dell’Agnello di Dio e della fuoriuscita di sangue ed acqua dal costato di Cristo – Gv 13 e Gv 19 ).
Il cieco, Mosè (e Lazzaro)
Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo. (2Cor)
La guarigione del cieco nato (Gv 9), l’episodio del volto luminoso di Mosè (Es 34) e la resurrezione di Lazzaro (Gv 11). Cosa hanno in comune? L’effimero. Questa strana parole che, da piccola mi aveva sempre affascinata per questa sua sonorità particolare, ottenuta dall’accostamento del suono della fricativa (f) e della nasale (m). Effimero come transitorio, passeggero. Qualcosa, quindi di non effettivamente implicante, di non decisivo, come ciò che, al contrario, ha brama di durare a lungo.
Per i suoi interlocutori, come per noi
Le guarigioni non sono altro che “segni”, per indurre a credere, senza però eliminare la nostra libertà di avanzare dubbi, perplessità, di non essere soddisfatti del prodigio compiuto. Una guarigione non esaurirà mai la portata della fede, perché garantirà sempre un margine possibile all’interrogativo.
I versetti conclusivi esplicitano il collegamento con l’episodio precedente:
Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,39-41)
La tentazione dell’autoesclusione
Il vero peccato (non che quello originale non sia un vero peccato, ma, dopo il Battesimo, è degli altri che dobbiamo occuparci!), spesso è quello di esclusione; o, meglio, di autoesclusione. È quello che ci accade ogni volta che, guardando gli altri, pensiamo: questo non mi riguarda. È l’illusione che possiamo risparmiarci qualcosa. Invece, la realtà è che non possiamo risparmiarci nulla, anche qualora una certa colpa non ci riguardi direttamente. La vera carità era quella di padre Ambrogio, che piangeva con i peccatori, per i loro peccati. Perché significava sentirsi intimamente coinvolto nel destino di ogni uomo: una necessità, per ogni discepolo di Cristo, chiamato ad essere pescatore di uomini (Mc1,16-20), che li porti alla vita in pienezza!
Vedi anche:
III Domenica di Quaresima (Vedersi schiavi, per diventare figli)
IV Domenica di Quaresima, 2022 (Mediazione vincente)
Rif. vangelo festivo ambrosiano, nella IV domenica di Quaresima
TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo secondo Giovanni, vol.I (capitoli 1-9), ESD, 2019
C. THEOBALD, La rivelazione, EDB, 2006
Fonte immagine: Pexels
2 risposte
Siamo tutti in cerca di luce. Possa il Signore guarire anche la nostra cecità affinché non brancoliamo più nel buio.
«Perché in lui siano manifestate le opere di Dio».
È quello che penso tutte le volte che vedo una persona con disabilità fisiche o mentali o bimbi che muoiono precocemente. Secondo me nessuno ne ha colpa è solo perché Dio li ha fatti parte di un progetto più duro ma molto più grande.
Grazie per il tuo profondo commento Maddalena e buona domenica!