Lazzaro, nato due volte
La quinta domenica di Quaresima, nel rito ambrosiano, è caratterizzata dall’episodio della “resurrezione” di Lazzaro di Betania, che possiamo leggere nel capitolo undicesimo del vangelo di Giovanni. Nell’emersione di Lazzaro dal sepolcro, i Padri della chiesa videro spesso non solo una prefigurazione della resurrezione di Cristo (e della nostra!), ma, anche, una figura dell’uomo nuovo, che può “rinascere dall’alto”1 in virtù della grazia, offerta nel sacramento del Battesimo.
Il popolo d’Israele e la legge
Dio dona la legge e il popolo d’Israele è chiamato a rispettarla. Questo ci ricorda il libro del Deuteronomio, nella seconda lettura che la liturgia propone. Nel dono della legge, Israele riceve anche un’identità. Nessun altro popolo gli può assomigliare, perché è l’unico ad avere ricevuto in dono i comandi dell’Altissimo. Nessun altro può dire altrettanto e, quindi, nel rispettare tale legge, ricevono un’identità unica, che consente loro di esprimere al massimo il loro potenziale.
Le leggi mosaiche rischierebbero di essere vuote, senza il ruolo della memoria.
La legge si accompagna all’azione di Dio in favore del popolo d’Israele. È memoria di un patto, di una relazione. È all’interno di questo rapporto e in nome di questo rapporto che si sviluppano le richieste.
Dio chiede all’uomo di rispettare un patto, per il bene dell’uomo stesso. Gli offre tutti gli aiuti necessari. A partire dal ricordo della salvezza. È in quel ricordo che s’inscrive il patto e che prosegue nel tempo. Senza la memoria, sia legge che il rapporto con Dio rischiano di sbiadire in una tradizione che è mera ripetizione, ma priva del cuore pulsante dell’uomo.
Dono, non costrizione
Difficile accogliere la legge secondo quest’ottica, in una cultura come la nostra, impregnata di individualismo, per la quale ogni limite proposto al singolo rischia di essere visto come limitazione di fantasia e creatività. La legge come dono? Sembra follia. La legge esiste, per essere infranta, non accolta e certo non con gratitudine, casomai come una seccatura, da rispettare se è più conveniente del rischio di una multa.
Eppure, spesso la legge non fa che sottolineare proprio quei limiti che è la realtà stessa che ci impone, dal momento che non possiamo oggettivamente disporre di una libertà del tutto sfrenata. La realtà stessa ci pone i limiti del nostro agire. Basti pensare, ad esempio che, se siamo liberi di mangiare come vogliamo e condurre lo stile di vita che preferiamo, tuttavia se questi non sono corretti, a breve o a lungo termine, il nostro corpo e la nostra salute ci presentano il conto.
«Fate buon uso del tempo»
Il richiamo dell’Apostolo, nella seconda lettura che la liturgia propone, va a toccare un ambito talvolta sottovalutato. Dopo aver invitato a morigeratezza nel rapporto con l’alcol, il secondo invito è a fare buon uso del tempo. Sembra banale, scontato, ma non lo è affatto. Come la legge, anche il tempo è un dono. Inestimabile e prezioso, dal momento che ci viene consegnato in regalo al momento della nascita e sappiamo che moriremo, prima o poi, ma non sappiamo quando. Non siamo dunque in grado di quantificare a quanto ammonti, esattamente il “tesoretto” di tempo che ci competa, con cui ci giocheremo la nostra esistenza. Sarà tanto? Poco? Avremo una vita lunga e coronata di salute? Il mistero sul tempo è in realtà un regalo aggiuntivo, perché è un invito a non considerarlo inevitabile. È un dono prezioso, proprio in quanto incalcolabile. Ciascun attimo è irripetibile. Che sia il primo o l’ultimo, potrebbe in ogni momento essere l’ultimo, che però sarebbe l’anticamera di una nuova esperienza. Perché questa è la certezza che ci consegna Cristo: “siamo nati, perché siamo fatti per la vita. La morte non può tenerci in suo potere, perché i nostri occhi possono guardare oltre”.
Morte e vita
Proprio su questo si sofferma il brano evangelico di Giovanni 11. La morte, la malattia, l’impotenza dell’uomo, di fronte alla prepotenza del male che viene da lontano, che non risponde alle cure, che arriva e ti porta via gli affetti più cari.
Gesù è colto da una notizia, mentre è per via: “il tuo amico Lazzaro è malato”. Un fulmine a ciel sereno.
Betania e l’amicizia
Lazzaro, Marta e Maria si trovano a Betania. Un piccolo borgo a pochi chilometri da Gerusalemme, che sembra pensato apposta per una sosta, prima di arrivare al cuore pulsante della vita ebraica del suo tempo. Nel cuore di Cristo, quei fratelli hanno un posto fisso. Quella casa è il suo piccolo rifugio, nella sua itineranza. Dai Vangeli traspare un’amicizia sincera e limpida. Vi si reca spesso con i discepoli, soprattutto quando la fatica del suo peregrinare si fa sentire. L’impressione è che quella casa sia il luogo sicuro, quello dove cavarsi le scarpe e poter respirare a pieni polmoni, lasciandosi alle spalle le aspettative delle moltitudini, i complotti delle istituzioni, le invidie e le antipatie dei rabbini.
Lazzaro e Cristo
Prima di Lazzaro, il segno che Cristo lascia, nel suo passaggio, è un cieco che ritrova la luce, ma non la serenità, sperimentando, al contrario, l’isolamento sociale, a partire dalla propria famiglia.
Con Lazzaro, Cristo pare realizzare il più grande desiderio dell’uomo: consentirgli di vedere la morte in faccia, per poi ritornare in vita. È questo, in fondo, che ci colpisce, in molti film horror che ci tengono incollati al sedile per ore, in attesa del finale. Il desiderio di comunicare coi morti è spesso quello che muove verso l’occultismo. La curiosità di poter proseguire quella relazione che la morte ha spezzato diventa il terreno fragile da offrire al Nemico come sponda per accettare la proposta di allontanarci da Dio.
Eppure, sappiamo che ci sono state resurrezioni anche in altre esperienze religiose. Più propriamente, tale processo è detto “rianimazione”. Tuttavia, il proprium del cristianesimo non è far risorgere un morto, ma un uomo che è risorto dai morti.
Qui risiede la differenza. Lazzaro lascia la tomba, ma la sua condizione rimane di contingenza (alcuni anni dopo è morto, come chiunque di noi). Cristo no. Non risorge per morire di nuovo. Si tratta di una resurrezione gloriosa. Il suo corpo è diverso: mantiene le ferite della passione, ma non ne è più sovrastato.
Lazzaro, uomo nuovo
Nella tomba, Lazzaro sperimenta il buio della morte, della solitudine, dell’abbandono. Lui è dentro la tomba,gli altri fuori. L’unico legame che, ormai li unisce è l’odore di morte che ormai il cadavere emana, segno che nulla, ormai, in lui, è più vivo. Come fa notare, pragmaticamente, Marta. Eppure, Cristo non si lascia intimorire neppure da un cadavere in putrefazione. Di fronte ad un amico, non si lascia impressionare. Se è figlio di quel Dio che non si arresta neppure di fronte alle ossa inaridite2, ci rimane una certezza: «anche se il nostro peccato fossero come scarlatto, diventerebbe bianco come la neve»3. Non c’è alcun peccato che possa essere “troppo”. Nemmeno il più infamante. Neppure quello che ci riesce difficile perdonarci, il cui ricordo ancora ci insegue e tormenta. Se ancora viviamo nel senso di colpa, non viene da Dio. È il Nemico che ci instilla il dubbio di non essere abbastanza, per essere amati. Il senso del peccato è cristiano, è la consapevolezza di sbagliare, dovuto alla natura umana, ferita dal peccato. Ma rimuginare il senso di colpa denota il dubbio che possa esistere un peccato imperdonabile, cioè la cui portata sia superiore alla capacità di perdono di Dio. Ma se ha accettato che gli uccidessero il Figlio, senza vendicarsi… cosa può essere imperdonabile, per il cuore di Dio?
1 Cfr. Gv 3,3
2 Cfr. Ez 37, 12-14
3 Cfr. Is 1,18
Rif. letture festive ambrosiane, nella quinta domenica di Quaresima, anno B (Dt 6,4.20-25; Ef 5,15-20; Gv 11)
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