Risplendere di luce
“Alzati e risplendi” (Is 60, 1)
Siamo fatti per risplendere. La luce è il nostro habitat naturale. Siamo fatti per essere luce, non per rimane nascosti o ingrugnati su noi stessi.
Siamo creati perché amati. L’amore ci rende belli e ci fa brillare, se solo accettiamo di deporre quello sguardo negativo, che ci impedisce di vedere la rivelazione di ciò che, pur essendo eterno, è sempre nuovo. Perché ogni giorno può essere abitato dalla luminosità della rivelazione che la nostra vita è fatta per la gioia, è indirizzata ad una luce senza tramonto.
Via pulchritidinis: la via della bellezza
La via pulchritudinis come la strada privilegiata per l’incontro con Dio. Ma anche con noi stessi e con l’altro. Sembra questo l’invito della liturgia, che s’innesta su un vocabolario di luce, bellezza e armonia, emanazione di una luminosità interiore, che può venire dall’apertura all’azione della grazia.
La prima lettura, dal profeta Baruc, è un tripudio di luce e colore. Il richiamo è a dismettere le vesti della tristezza, anzi, di quelle nuziali: richiamando il canto nuziale di Isaia 61[1], troviamo il riferimento a lunghe vesti ricercate, al diadema. Vestiti formali, raffinati, eleganti. Vestiti per ingentilire l’aspetto e darvi lustro. Illuminare il volto diventa quasi una parola d’ordine, nel grigiore di questo tempo autunnale, che rischia d’indurre alla tristezza, quando non alla pigrizia.
Il richiamo pare rivolgersi a Gerusalemme: se la Chiesa è la nuova Gerusalemme e noi siamo membra vive della Chiesa, ne risulta che il richiamo è rivolto a noi.
Tre abiti
Non si tratta, ovviamente, solo di un invito estetico. Sono tanti, infatti, gli abiti che indossiamo. Vi sono abiti che, d’inverno, ci consentono di stare al caldo e, d’estate, di non sudare troppo: sono il nostro abito esteriore. C’è un abito morale, che dice della nostra abitudine verso un certo comportamento: ci sono abiti buoni e abiti cattivi. Maggiore è il radicamento, più difficile è farne a mano; ciò è un bene, se si tratta di un’abitudine buona (virtù), mentre è un campanello d’allarme, se si tratta di un’abitudine negativa (vizio). Questo spiega, infatti, perché siano tanto pericolosi i vizi e – parimenti – difficili da raggiungere le virtù propriamente intese. In entrambi i casi, il punto di forza è il radicamento interiore. Un abito buono ci spinge al bene, anche senza che noi affrontiamo un complesso discernimento. Allo stesso modo, però, acquisito un abito cattivo, esso tende ad essere reiterato: ciò contribuisce, tra l’altro, a sospingerci verso uno degli stati d’animo più nefasti per la nostra conversione: la rassegnazione (per intenderci, il “sono fatto così, non ci posso far nulla”). Vi è un terzo abito, forse il più importante, in questo senso: è l’abito interiore. Dal momento che noi “non soltanto compiamo dei gesti, ma li abitiamo”, cambiare il nostro abito interiore significa – di fatto – colorare questi atti di una sfumatura differente, più vivida e brillante, anche quando – apparentemente – il tempo che noi dedichiamo a ciascuno di essi non muta affatto.
Lavori in corso
Siamo fatti per risplendere. Ma non ci basta un’acconciatura nuova o un bel vestito. Non si tratta solo di accurato maquillage, gli interventi che sono necessari sono profondi e strutturali.
Ecco perché nel Vangelo di Luca (3, 1-18), riprendendo il profeta Baruc[2], si parla di veri e propri lavori edili, per una ristrutturazione profonda, per non dire radicale: “colmare valli”, “spianare la terra” sono tutte azioni che richiamano, da una parte, il tempo e la fatica necessari per compiere tali azioni, ma, al contempo, indicano già il fine di questo lavoro: armonia e gratificazione per lo sguardo, in vista di un ospite di riguardo.
Scuola guida per anime in cammino
L’incontro con Dio richiede una costante conversione, cioè un’inversione a U. Sappiamo che è una di quelle manovre, che, in genere, cerchiamo di effettuare solo quando strettamente necessario, per vari motivi: è complicata, potenzialmente pericolosa e, specie nelle grandi città, foriera di ritardi per sé e gli altri utenti della strada. Nella vita di fede, però, è necessario sia pane quotidiano. Se non lo è, rischiamo di inaridire. O la conversione è pane quotidiano, oppure ci cibiamo di pane rancido: non ci sono alternative. La conversione è quella cosa che sembra sempre lontana da noi, così lontana che riguarda sempre gli altri. Invece è quella radice che può cambiare le cose radicalmente, anche quando non le cambia esteriormente.
La conversione dello sguardo
Quando ci convertiamo, è il nostro sguardo che cambia. Magari non doniamo i nostri beni ai poveri, non vestiamo di cilicio. Facciamo le stesse cose di prima, ma è il nostro modo di abitarle che è cambiato. È il nostro sguardo che si è avvicinato a quello di Cristo. Sorridiamo di più e ce la prendiamo di meno. Magari, non cambiando di una virgola le nostre giornate.
Non si tratta di un enorme sforzo mentale, di un ciclopico impegno ascetico. La vera conversione è lasciare che il nostro tempo sia abitato da Dio, cosicché tutta la nostra vita diventi una preghiera.
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Rif. letture festive ambrosiane, nella II domenica di Avvento, anno A, particolarmente la prima (Bar ) e il Vangelo (Lc 3, 1-18)
[1] Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza,
mi ha avvolto con il manto della giustizia,
come uno sposo che si cinge il diadema (Is 61, 10-11)
[2] Poiché Dio ha stabilito di spianare
ogni alta montagna e le rupi secolari,
di colmare le valli e spianare la terra
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
Anche le selve e ogni albero odoroso
faranno ombra ad Israele per comando di Dio.
Perché Dio ricondurrà Israele con gioia
alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia
che vengono da lui. (Bar 5, 7-9)