Il 3 maggio, a Roma si è celebrata una giornata particolare, perché ci coinvolge tutti.
Promossa, tra gli altri, dall’Associazione Meter di don Fortunato Di Noto, si tratta della Giornata mondiale per i bambini vittime della violenza.
È una giornata che lascia un fondo di rabbia, perché di fronte alla malattia infantile, che annichilisce, non è possibile trovare colpe. Si può cercare di rimediare al problema, tentare di trovare una cura anche per le malattie più rare, continuando a finanziare la ricerca ed i ricercatori.
Ma i bambini vittime di violenza non nascono né sviluppano problemi, se non a causa dei grandi. Spesso, proprio a causa di chi avrebbe dovuto prendersene cura, proteggerli e accompagnarne la crescita. È triste infatti constatare la cruda realtà, che sottolinea come, nella maggior parte dei casi, gli abusi infantili avvengono in famiglia e nei luoghi più familiari al bambino, ad opera di familiari più o meno vicini, fino ad amici dei genitori od educatori.
Qualunque abuso si configura innanzitutto e sempre come un tradimento nei confronti del bambino, che si fida delle persone alle quali è affidato e non concepisce possano fargli del male; è questo infatti il motivo principale per cui è il bambino per primo a faticare nel trovare un motivo o una spiegazione ad un comportamento errato nei propri riguardi.
L’abuso più forte e senza dubbio più spregevole è quello sessuale, che tuttavia non rimane l’unico.
I bambini sono spesso vittima dell’incuria, dell’abbandono, dell’incapacità degli adulti di prendersene cura, che spesso fanno danni fisici e psicologici non meno gravi di chi ne abusa in altro modo. Ci sono poi le aggressioni, verbali e fisiche nei loro riguardi. Purtroppo, all’origine talvolta ci sono adulti incapaci di provvedere persino a se stessi, che fanno però pagare il prezzo maggiore di scelte sbagliate proprio ai più piccoli.
Non si tratta di una caccia al lupo cattivo, ma certamente di essere attivi e solerti. Anche quando i fatti non ci riguardano in prima persona.
Un bambino non è soltanto figlio di chi l’ha concepito, ma dovrebbe oggetto di cura ed attenzione da parte dell’intera società. È così in Africa, dove i bambini sono considerati da preservare e proteggere e l’intero villaggio è chiamato a rispondere a questo compito.
Anche da noi, almeno una volta, si percepiva una mentalità simile: al parco giochi si buttava l’occhio anche agli amichetti, quando i genitori li lasciavano da soli. Forse adesso in questo mondo sempre connesso non abbiamo più però la stessa attenzione a quelle connessioni interpersonali che possono diventare vitali per un bambino o per una famiglia. Avere una “rete” di famiglia intorno a sé può consentire sia alla famiglia in difficoltà temporanea, sia al bambino abusato la serenità di potersi affidare a persone note e affidabili, quando il fulcro che ha dato origine alla sua esistenza non si dimostra in grado di accudirlo come dovrebbe o, addirittura, gli usa violenza.
Temo che queste nostre famiglie, sempre più disgregate ma al contempo più accartocciate su se stesse, rischiano di essere già in fase embrionale più a rischio di quanto lo fossero prima: vedo molto meno diffusa l’usanza di condividere i “compiti” comuni, come lo svolgimento dei compiti, l’organizzazione del tempo libero oppure l’accompagnamento alle attività extra-scolastiche. Complice forse la maggiore frammentazione (in settimana con la mamma, nel week-end col papà), spesso le amicizie a scuola non sono le stesse del fine settimana e i genitori che conoscono il papà non sono quelli he conoscono la mamma: tutto ciò complica senz’altro l’affiancamento alle famiglie in difficoltà, che può essere più tempestivo se la famiglia è già inserita in un conteso di famiglie che si aiutano in caso di bisogno.
Per il bambino, mamma e papà sono inevitabilmente il fulcro della sua vita e della sua crescita, persino quando essi non si dimostrano educatori adeguati al compito. Ma se sono l’unico suo riferimento, diventa più difficile intervenire, soprattutto nei casi più gravi.
A chi potrà confidare il suo disagio, se esso proviene proprio dalle persone che sono detentrici della sua fiducia? Di chi si fiderà, dopo che le uniche depositarie ne han fatto man bassa, lasciandolo deluso e frustrato?
Senza dubbio, purtroppo, capitano anche episodi di violenza e maltrattamento al di fuori della famiglia di origine, ma quelli che accadono all’interno non solo sono i più diffusi quantitativamente, ma rimangono sempre sottostimati, perché è sempre difficile individuarne i casi, per via della riservatezza, che in alcuni casi diventa però omertà complice.
È comprensibile l’innaturalità di un intervento all’interno di una famiglia che non sia la nostra, perché, sostanzialmente, siamo fermamente dell’opinione che ognuno in casa propria abbia il diritto di decidere autonomamente dell’educazione dei propri figli.
Ma c’è un confine invalicabile, oltrepassato il quale il nostro silenzio finisce d’essere rispettoso e diventa complice delle nefandezze degli adulti. Se veniamo a sapere (o – anche solo – abbiamo il sospetto) che un bambino che conosciamo abbia qualche comportamento strano, che possa essere indice di incuria, negligenza od abuso, è nostro dovere umano fare qualcosa, intervenire.
Spesso, i bambini non sono in grado di chiedere aiuto e quando riescono a farlo è troppo tardi.
Ogni violenza, in ambito infantile, è come goccia che scava la roccia, che erode fiducia, serenità, stima di sé e ne condiziona l’armonioso sviluppo fino a ledere in modo permanente e difficilmente sanabile l’adulto di domani.
È vero, talvolta le accuse di pedofilia sono state utilizzate come fango da gettare in faccia a personaggi troppo scomodi, per danneggiarne la credibilità, motivo per il quale è bene sempre accertarsi con cura da chi provengano tali accuse. Ma è necessario fare presto, intervenire il prima possibile perché ogni ritardo produce danni incalcolabili, sul bambino vittima di violenza e sull’adulto che sarà in futuro.
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Ecco perché un bambino vittima di violenza non sarà mai un problema di un singolo, di due individui, di una famiglia o di una comunità educante. Un bambino che ha difficoltà è un problema che coinvolge l’intera società, perché dalla speranza coltivata nei loro giovani cuori dipende il mondo di domani. E se i sogni glieli spezziamo noi grandi, non possiamo poi lamentarci di quello che è il risultato della nostra incuranza, indifferenza ed incapacità di prendere posizione.