Come un luogo dal quale tutti sembrano voler scappare. Perchè quaggiù sulla terra – tra contraddizioni manifeste, presagi nefasti e carestie imminenti – la storia sembra essere diventata un’insopportabile avventura alla quale abdicare al più presto. E’ il tempo del bicchiere “mezzo vuoto”, della malinconia dilagante e del pessimismo catastrofico: forse il clima meteorologico che si respirava nella cittadina di Babele – pianura di Sennaar, regione della Mesopotamia – quando si decisero di sfidare il Cielo innalzando una torre. Passò agli annali come la più grande catastrofe edilizia della storia: rimase un pugno di polvere come traccia di un sogno nefasto. A Babele, luogo che da allora divenne il simbolo di chi sogna di mettersi al posto di Dio, rispose un’altra borgata, quella che ricevette il suo nome dalla professione di chi l’abitava. Abitata da fornai – gente che lavora il pane – non potè che chiamarsi “casa del pane”, Betlemme per l’appunto. Laggiù, frastornata dalle nenie dei pastori e dai forni caldi, s’iniziò a scrivere la storia contraria a quella di Babele: se nella prima l’uomo sognava di diventare Dio, nella seconda un Uomo che era Dio – e che aveva tutti i crismi di essere “Figlio di Papà – decise di diventare uomo, di abitare dentro la storia, di sporcarsi di giorni, di pesca e di quotidiano. Per porgere all’uomo il sospetto che vale un mistero: “Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Che, cioè, la vita di quaggiù non è una stramaledetta cosa dopo l’altra ma un’avventura che “rotola melodiosamente dalla mano di Dio (E. Hillesum).
L’uomo sembra aver occupato il posto di Dio; e Dio sembra aver lasciato fare, dal momento che nel Suo incedere non ci può essere gioia senza libertà. Eppure qualcosa sembra essere andato storto: forse che per essere Dio occorra veramente uno sguardo diverso, un tocco diverso, un sentire diverso. Il guadagno, puntualmente rinnegato, è sotto gli occhi di tutti: la corda s’è spezzata e l’uomo è caduto. E’ come se oggi, nel mezzo di un naufragio, ognuno tentasse di aggrapparsi ad un pezzo di legno che ondeggia sul mare mosso: ma quel legno non è attaccato a nulla. Che la rassegnazione sia l’unica risposta ad un tentativo dis-umano di sfidare Dio? Non necessariamente. Il Natale ci offre un’altra possibilità: alla facilità della rassegnazione suggerisce la nobiltà della resa. Chi sceglie la rassegnazione accetta di essere passivo, chi preferisce la resa sopporta la realtà decidendosi di trasformarla interiormente. La differenza sta nell’atteggiamento diverso con il quale la persona si pone di fronte alle avversità dell’esistenza. E’ il paradosso del Natale cristiano: Dio non fugge dal quotidiano ma decide di avventurarsi in esso per farlo risplendere. Da Betlemme al Giardino della Risurrezione, passando per il Monte del Golgota e l’angoscia del sabato santo: la Bellezza, come anche qualsiasi forma di salvezza, ha un prezzo. E il prezzo del Natale sarà la Croce. Tutto il resto della narrazione è la parodia del Natale che amiamo narrarci per sentirci meno angosciati nella ristrettezza del quotidiano. Che sembra sfinire i sogni.
Sul cartello stradale che indica Betlemme mai si troverà scritto “Città gemellata con Babele”: Dio s’intestardisce ad abitare la terra per farne esplodere la sua bellezza primigenia. E’ questa forse la ragione che anche quest’anno spinge Dio a ri-nascere quaggiù: l’aver percepito che nemmeno questa volta l’uomo s’è fidato di arrendersi a Lui. Che, poi, altro non è che la notizia più bella e paradossale: Dio ti cerca e ti trova sempre. Non te lo perdere, altrimenti sei perso. E per non lasciarsi perdere, Dio fa la figura dell’innamorato smemorato: anche quest’anno ritorna come fosse la prima volta.
(da L’Altopiano, 21 dicembre 2013)