L’attesa: mai parola fu più vituperata. Chi alzerebbe la mano alla domanda: “Vorresti attendere?”. L’attesa è una perdita di tempo, un’imperdonabile carenza, un’ inefficienza palesata impunemente. Aspettare è diventato talmente odioso che si è disposti a tutto, pur di evitare le code; piuttosto, a pagare una persona perché stia in fila al posto tuo. Non è forse vero, infatti, che spesso queste sono le mansioni assegnate a colf e badanti: recarsi alle poste a ritirare la pensione, andare in banca, passare a prendere il risultato di un referto medico, prenotare una visita.
Aspettare è l’attività più evitata al mondo. Perché aspettare, se è possibile farne a meno? Aspettare è un fastidio, una noia che si inserisce nella nostra vita, efficiente e veloce. Accettare l’attesa significa accogliere la possibilità di rallentare la nostra corsa, di concederci una pausa, di lasciarci interrogare. Perché rallentare comporta anche quest’aspetto. Inevitabilmente.
E noi non siamo disposti. Il tempo ci è sempre troppo stretto, come un abito che ci imprigiona in cuciture troppo avide. i nostri desideri hanno la meglio sulla nostra capacità di aspettare e noi corriamo il rischio quotidiano di esserne sopraffatti. Tutto è fissato da scadenze. Anche le tappe della vita ci sono imposte dall’alto come ineluttabili. Non si può aspettare. non si può tardare, anzi “se ti affretti e acceleri le tappe, è solo meglio!” sembra essere il suggerimento implicito che ci arriva, insistente come un mantra, accennato come un sussurro, persistente come un molesto. Di fronte a tante sollecitazioni, come rimanere impassibili? Come non lasciarsi condizionare?
Ma cosa perdiamo, quando non sappiamo attendere? il gusto dell’attesa, che è poi promessa di gioia intensificata, di fronte al desiderio realizzato. Perdere il senso dell’attesa equivale a dimezzare il gusto del desiderio. Minore è l’attesa vissuta e minore è il gusto per aver conquistato quanto era aspettativa profonda, penetrata nell’incedere dei giorni e nello scorrere incessante delle ore. Abbiamo dimenticata la bellezza di un dono perché siamo incapaci di gustare l’attesa. Se tutto è dovuto, come una pretesa, niente è più in grado, ormai, di sorprenderci. La sorpresa non abita più i nostri giorni, occupati ormai stabilmente dalla delusione, ospite inevitabile, di fronte ad aspettative sempre più alte e sempre più impellenti. Poco propensi al discernimento, siamo ormai diventati incapaci di stabilire le priorità e questo causa, ineluttabilmente, la trasformazione di ogni desiderio (per quanto nobile sia) in bisogno. Tale trasformazione è però – evidentemente – un artificio. Il desiderio, perché sia tale, dovrebbe essere un moto dell’anima, che aspira a raggiungere qualcosa: si tratta di qualcosa di bello, di nobile, ma non è urgente; un bisogno è tale perché riguarda una necessità ed è quindi, per definizione, qualcosa di impellente, che non è capace di attendere. Confonderli tra loro è la dannazione dell’uomo moderno. È una dannazione perché, se proviamo tante cose, ma senza assaporarne il gusto, rischiamo di accumulare tante esperienze, di cui non percepiamo però il valore e che rischiano, quindi, di essere una mera “lista della spesa”, al termine del quale non abbiamo ricevuto niente che possa farci sentire più ricchi e farci comprendere la nostra preziosità.
Forse proprio in quest’allergia alla preghiera si può azzardare una prima ipotesi sui motivi profondi che portano ad una natalità tanto bassa, nel nostro Occidente. Una natalità che era già bassissima ben prima della crisi, per cui è un’alibi piuttosto irrealistico parlare della crisi quale motivo (può esserlo, ma senza dubbio, non è il principale, dal momento che la denatalità non trova la sua genesi in essa, ma molto prima – cronologicamente parlando -)!
Attendere un figlio pone di fronte alla necessità dell’attesa, che ti fa toccare con mano il non essere padrone di ogni evento che riguarda la vita, anzi di non esserlo neppure del tuo stesso corpo (né il padre né la madre hanno infatti la possibilità di influire completamente sulla crescita del bimbo all’interno del ventre materno). Una gravidanza è sempre un evento che, persino per la madre èq qualcosa di cui, al contempo, ci si ritrova sia protagonisti che spettatori.
Accogliere la consapevolezza che non tutto nelle nostre mani, specie per chi non crede, è qualcosa che si può rivelare, molto spesso, particolarmente impegnativo e faticoso.
Attendere un figlio, in avvento, è un’esperienza che non è data a tutte le coppie: ma quelle a cui è concessa questa opportunità, almeno una volta nella vita, magari insieme con gli altri figli, credo abbiano una possibilità straordinaria per comprendere in modo più pieno e consapevole l’Avvento e il Natale: la possibilità concreta e reale, cioè di assaporare il natale non tanto come una festa di doni, ma come la possibilità di vivere la vita come un Dono continuo, da fare e da farsi, in nome suo.
E, poiché Gesù ha scelto di farsi presente tra noi come un bambino che nasce in una famiglia, un nuovo figlio che schiude gli occhi alla vita, un nuovo, piccolo cuore che batte è un messaggio di speranza che invita ad addentrarci nel senso più vero di quello che, per noi cristiani è l’Attesa per eccellenza.
L’attesa si fa ‘densa di preghiera’, ci suggerisce un canto. La densità riporta al concetto di pienezza: in chimica, un composto è denso quando la sostanza principale, cioè l’essenza, rappresenta la parte quantitativamente più rilevante. Un suggerimento, forse, a ripensare il valore della preghiera e della vita di fede, in special modo all’interno della relazione di coppia. Non solo nelle avversità, ma anche di fronte a tutte quelle piccole grandi sfide quotidiane, lungi dall’eroismo ma concretamente coinvolgenti, che spesso prendono la forma dei colloqui con gli insegnanti, degli accompagnamenti alle attività extracurricolari o di un festa con gli amichetti dei figli.
Perché è nella concretezza della quotidianità, nell’apparente banalità della routine che ci giochiamo il nostro essere cristiani e decidiamo se si tratti solo di un ingrediente accessorio oppure qualcosa che qualifica e dona senso all’intera mia vita, all’essere coppia, famiglia e comunità.
Un figlio, non il primo. Neppur il secondo o il terzo. in una famiglia come tante, non ricchi, né poveri. Statisticamente, la situazione più comune in cui si fa ricorso all’aborto; è un dettaglio che mi si è impresso nella mente, ad una conferenza sul tema. Io, nella mia ingenuità, avevo sempre pensato che la situazione più tipica fosse di adolescenti, alle prime esperienze; invece no: il caso più diffuso, quantitativamente parlando, per descrivere l’aborto è precisamente quello di quarantenni che vi ricorrono, per evitare di “cambiare” i piani, allargare la camerata dei bimbi oppure rischiare di compromettere una carriera avviata. A fronte di questo ricordo, sentir parlare di un quarto figlio in arrivo, mi ha riportato a galla questa statistica, per cui , alla domanda, anche piuttosto brutale “Ma dove lo mettete?”, sentire la risposta “Ci penseremo!” mi ha davvero allargato il cuore. Che forse è davvero la prima cosa che è necessario allargare, prima ancora delle pareti di casa. Perché per saper accogliere è necessario innanzitutto sviluppare la virtù dell’accoglienza, che è precisamente la capacità di dilatare il cuore di fronte a chi è escluso, debole, indifeso, bisognoso di attenzioni e di cure. Come, del resto, è un bambino. Ma c’è un’altra cosa che denota una frase così semplice, forse anche istintiva e naturale: lascia trasparire la forza della determinazione, accompagnata all’abbandono confidente in Dio.
Ogni tanto abbiamo un’idea distorta della fede: siamo convinti che si tratti di qualcosa che riguarda i preti e le suore. Io sono sempre più convinta che, al contrario, la prima, vera e imprescindibile testimonianza di fede la dà una coppia che si dimostra accogliente verso la vita, che confida che non ci sia un limite all’amore e che l’unica misura possibile sia “amare senza misura”. Che, tradotto in termini concreti, significa che l’amore di Dio non dimentica nessuno dei suoi figli e che l’Amore trova un modo, non una scusa per “tirarsi indietro”. L’apertura alla vita e il primo e il più determinante di testimoniare la fede, andando controcorrente: è l’affermazione, di carne e di sangue, come l’Incarnazione, che Dio è presente dove c’è la volontà di assomigliargli. e questa frase non ha intenti propagandistici o superbi, ma appartiene alla stessa fede dei “piccoli di Dio” che non temo le avversità perché sanno in chi ripongono la propria fiducia.
“L’amore va oltre” canta Gatto Panceri: va oltre, certo; ma non elimina i problemi; ti lascia, però, con la speranza che, insieme, non siano insormontabili né abbiano l’ultima parola. Questo, in particolare modo, quando, nonostante precedenti vissuti negativi legati alla gravidanza (attese non dolci, che, purtroppo, non hanno avuto l’esito che tendiamo a dare per scontato), la coppia trova il coraggio di allontanare i fantasmi del passato e rendere partecipi amici e conoscenti della gioia di un’attesa, correndo il rischio di avvertirli di una nuova gravidanza. Un tale coraggio non può che essere sorretto dalla certezza di un Dio fatto uomo per sconfiggere la Morte e il suo potere nefasto sull’umanità.
Comprendo anche una cosa, difficilmente negabile: un’apertura alla vita così gratuita, spontanea e confidente è oltremodo difficile, se non appoggia saldamente nella fede, condivisa e vissuta da ambedue, che un Dio d’Amore ha scelto di scommettere, insieme con loro, il rischio di quel progetto pensato insieme, ma sulla Sua misura.
L’amore di una coppia e il figlio che ne consegue, concretizzazione fatta carne dell’amore dei coniugi, che, nel suo pulsare, prende forma e dà vita ad un nuovo essere umano. Nuova vita, nata dall’Amore. Dio è Amore e manda Suo figlio, che si incarna nel Natale della storia e nella nostra storia persona. Quale esperienza umana ci avvicina maggiormente all’amore di Dio e ci aiuta a penetrare il mistero del Natale, se non la nascita di un figlio?
Pensiamo anche a questo, ogni tanto, quando, pensando alla generazione di nuove vite, vinti dalla tristezza e dalla mancanza di fede nella Provvidenza siamo tentati di pensare che non sia il caso di ingrandire la famiglia. Pensiamo che, in questo secolo a crescita zero, stiamo togliendo al mondo la gemma più preziosa dell’amore umano: l’amore coniugale, capace di rispecchiare l’Amore divino, dando vita a nuove vite!