Il suo segreto è d’essere divenuta nell’immaginario collettivo un fatto banale, un qualcosa che non debba preoccupare più di tanto, una dama smaliziata libera di passeggiare dentro gli anfratti delle esistenze. Chi di lei ne fa uso sino al punto da diventare suo dipendente (e pure suo “tappettino”, ndr) ripete sempre la solita frase: “tanto io se voglio riesco a smettere domattina”. Qualora dovesse poi imboccare una strada a vicolo cieco, sarà compito della società ridurre il danno e cercarne una soluzione. Oggi la droga è un fatto così quotidiano e superficiale che il fatto che uno si droghi non importa più a nessuno: qualche grammo di sostanze lo si trova a scuola, negli oratori, dentro le carceri, durante i campeggi, negli spogliatoi. E’ come se lentamente si fosse sparso un tacito diritto ad abusare della droga, al punto che non s’avverte più nessun senso di colpa e di responsabilità da parte della società e dei singoli. E’ anche grazie a lei che le galere ultimamente sono divenute come “vagoni stipati” del treno della disperazione: con il suo commercio prometteva soldi facili ed euforia a portata di mano tenendo nascosto il rischio che in essa era nascosto. Non tanto quello d’essere un giorno arrestato ma di continuare a sprofondare dentro un abisso di solitudine e di malinconia umana dal quale uscire si sta dimostrando cosa assai ardua e dilaniante.
Una ragazza che muore di overdose – l’ultima di una lunga lista della quale mai si scriverà la parola “fine” – testimonia alla società che non sempre l’avversario da battere è dall’altra parte della rete o del campo da calcio: il vero nemico di una storia è spesso dentro la persona stessa. Il segreto dell’educatore, dunque, sarà quello di formare e di allenare il singolo a diventare il miglior allenatore di se stesso possibile. Ammaestrandolo e incoraggiandolo alla responsabilità. Scrisse Bernard Shaw: “la libertà significa responsabilità. Ecco perchè molti la temono”. Un angosciante paradosso se pensiamo al desiderio e alla sete di libertà della società d’oggi, del mondo giovane in primis. Così assetati di libertà da accettare di diventare prigionieri viventi di un qualcosa che toglie la libertà e crea dipendenza al punto tale da fare delle loro giovani storie colorate dei loculi cimiteriali senza il marmo antistante: uomini e donne in semilibertà vigilata. La sfida dell’educatore – e delle agenzie educative in generale – può sembrare una grossa perdita di tempo. Una ragazza che muore potrebbe sembrare ai più un invito a non perdere tempo, a smetterla di credere nelle risurrezioni quaggiù, a lasciar morire in pace chi lo desidera. E’ invece in queste situazioni che la sfida s’affina al punto tale da crederci sempre di più. Perchè oggi aiutare un ragazzo a rimettersi in piedi significa trasmettergli prima di tutto la passione per la vita, la forza micidiale dei sogni, l’urto disarmante della volontà. E’ far capire che quel passaggio fantastico che li aveva fatti vincere mille volte, o quella tattica innovativa che pensavano fosse sempre quella giusta, non potevano essere ripetuti all’infinito. Insegnare che esistono le sfumature, la gamma dei grigi, spingere a trovare, e trovare io stesso nuove idee. Dev’essere un invito forte, gridato a squarciagola e a più voci, un invito che sia capace di stanare troppe vite che si sono adagiate a sopravvivere nei loculi della disperazione. Facendo della loro vita una nenia funebre.
Una ragazza che muore è un’apparente sconfitta per chi crede nella forza della Risurrezione. Una sconfitta che, però, non riuscirà mai ad offuscare la bellezza di averci creduto e lottato fino all’ultimo istante. Nonostante tutto.