farfalla

C’era una cosa che, quand’ero bambino, m’incantava assai: era quando, di ritorno a casa, trovavo ch’era passata la postina (o chi per lei) e aveva lasciato un pacchetto che, sopra, recava una scritta: “ATTENZIONE: FRAGILE”. Lì per lì iniziavo ad immaginare cosa ci fosse dentro: un vaso di cristallo, una scultura di vetro, un capolavoro di cartapesta. Oppure delle uova, dei fiori, delle bottiglie di fine fattura. Mi colpiva quell’Attenzione posto davanti all’aggettivo più frangibile della grammatica italiana: fragile. “Perchè tutta quest’attenzione verso ciò che è fragile?” mi chiedevo. E, chiedendomelo, mi davo anche la risposta: “Semplice: c’è il rischio che, forzando troppo la mano, tu rompa il contenuto del pacco. Con l’aggiunta, l’aggravante, che – appena lo vedi – manco sai cosa contenga: può contenere il massimo della bellezza come pure il massimo della delusione. Sai soltanto che è fragile. Per me quella scritta era già fonte di meraviglia: ardeva nel petto il desiderio di andare a conoscere quella fragilità che già l’adesivo mi diceva di trattare con cura. Pena il rischio di rompere ciò che manco conoscevo.
Non mi era ancora chiaro, in quel tempo (il quel tempo dei Vangeli, cioè il mio tempo), che quell’avviso sarebbe stato il cartello da augurarsi di trovare nel volto di ogni persona: nel mio volto. Perchè io, nonostante questo desiderio così malsano di mostrarmi forte, altezzoso, resistente, in realtà sono un uomo molto fragile. In certe stagioni convivo con un cuore a pezzi: ma è per questo che son fortissimo, e certe volte rido fino alle lacrime. Il fatto è semplice quando uno mi incontra: dipende sempre che cosa vuol vedere di me. L’insieme è impegnativo. Anche perchè, lo ammetto, so di essere fragile come una rosa, ma ho deciso di mettere tante spine attorno a me perchè mi vergogno, l’ammetto, che qualcuno venga a conoscenza della mia fragilità. Il carcere, comunque vada la mia vita, è stato la mia salvezza in materia: è il luogo per eccellenza delle fragilità, il paese delle debolezze, delle inconsistenze, dei difetti, delle infermità, delle indecisioni. Di tutto ciò che non è perfezione. Loro, non gli impeccabili, mi hanno dimostrato che la fragilità è un valore, non una mancanza: che è proprio perchè sono così fragile e dannato che sono meravigiosamente umano. Un giorno uno dei nostri ragazzi (li chiamo così anche se all’anagrafe han l’età di mio padre) mi scrisse una sorta di avviso prima di narrarmi la sua storia per iscritto: «Abbi cura della mia fragilità: è la parte più preziosa che ho». Fu come prendere uno schiaffo di luce: “Che atto di fiducia meraviglioso – pensai – quando una persona di quella statura (criminale) ti mostra le proprie fragilità”. Allora è proprio vero che dietro il volto, qualsiasi volto tu incontri, c’è una fragilità nascosta. Da fare attenzione.
Oggi, quando incontro qualcuno di fragile – di persone che il peccato ha reso fragili come foglie d’autunno – mi accorgo che mi narrano la loro storia partendo dalle macerie che hanno lasciato dietro di loro: e, mentre li ascolto, scopro che in mezzo alle macerie ci sono dei pezzetti di vetro che non hanno mai smesso di brillare, né di guardare il cielo. E sento quant’è grande ciò che Dio mi sta chiedendo: di trattare la fragilità degli altri con delicatezza. Ma se devo essere sincero, devo anche ammettere quando ho scoperto che tutto ciò è di un’importanza assoluta: quando ho accettato d’iniziare a frequentare le mie di fragilità. Innamorandomi di un fatto, tra l’altro: che quando le hai scoperte e te le rendi amiche, diventi invincibile. Io, invece (non la Chiesa in generale, proprio io) nascondevo le mie fragilità per paura di essere criticato o giudicato. E, così facendo, mi circondavo di persone sbagliate. Sinceramente non so come andrà a finire la mia storia di uomo e di prete, ma di una cosa devo dire grazie al buon Dio, a prescindere: che mi sta insegnando a prendermi a cuore degli imprecisi, dei distratti, di quelli che inciampano sempre. Perchè, incontrandoli, mi accorgo di una crepa familiare, di un ingranaggio che si è rotto. E, avvertendo ciò, sento che in queste storie così impacciate e scorbutiche, vibra qualcosa di prezioso che nessun’altra storia mi ha mai dato il sospetto di possedere. Se, poi, guardo alla mia storia personale, devo confidarvi il perchè dell’amore passionale che nutro nei confronti di un nonno come Papa Francesco. È semplice: non quando ero fragile, spaurito o titubante ma quand’ero rotto, crepato, dilaniato lui è stato capace di accarezzare la mia fragilità, di prenderla per mano e di promettermi che, se soltanto avessi creduto in Dio, sarebbe andato tutto bene. Nonostante i fatti accaduti. O, paradossalmente, proprio grazie a quei fatti accaduti.
Dirò di più: se potesse, al posto mio, prendere il microfono Cristo adesso, vi direbbe che la situazione più irregolare a sua conoscenza non è quella di un uomo che, divorziato, si è poi risposato ma quella di un prete (che sono io) che continua a considerare Dio come fosse un doganiere. E il suo corpo – “Il corpo di Cristo!” (Amen) – come un premio per i perfetti, invece che una medicina per i malati. Io immagino spesso, sapete, cosa dice Cristo di me quando mi sforzo di coprire le mie fragilità: «Non capisco quest’uomo (sono io) perchè si vergogni delle fragilità. Pensare quant’è irresistibile quand’è fragile». E’ un complimento, ma anche una frustrazione: perchè, a mentre fredda, adoro dimenticare che sarò sempre fragile e irregolare rispetto a qualcun altro.

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