La notizia è stata festeggiata col profilo-basso che è tipico di chi, da una vita, insegna a non esaltarsi nella buona sorte, a non accasciarsi nella cattiva. Eppure la prestanza dell’accusa mossagli era di una veemenza a dir poco eccessiva, quasi imbarazzante anche solo a metterla nero-su-bianco: violenza sessuale aggravata nei confronti di un bambino. Sul banco degli imputati, per quasi un lustro di tempo, hanno fatto sedere don Gino Temporin, rettore del seminario minore, il “cuore-del-cuore” della diocesi di Padova. Qualche giorno fa è stato assolto anche in appello: «il fatto non sussiste». Una verità giunta quasi sfinita per il suo girovagare tra faldoni giudiziari e aule di tribunali. Una verità-sfinita che, oggi, è un tesoro prezioso: «La verità viene da così lontano per raggiungerci – scrive Christian Bobin – che, quando arriva vicino a noi, è sfinita e non ha quasi più nulla da dirci. Questo quasi nulla è un tesoro». La sfinitezza è il suo charme: le verità abbisogna dei tempi lunghi per svelarsi.
Il fatto non sussiste: è la dolce notizia per un’intera diocesi, minacciata al cuore della sua vocazione. C’è un fatto, però, che sussiste. Colui che, per anni, in quel seminario ha fatto da guida è stato giudicato dalla giustizia degli uomini un prete affidabile: non ha tradito la sua missione d’educatore. Adesso che la brutta-faccenda sembra essersi conclusa, la sua grandezza d’uomo si staglia in tutta la sua dimessa grandezza: alle affermazioni di primo-acchito, ha scelto d’attraversare il deserto della menzogna a testa alta, perché le parole dette un tempo acquistassero lo spessore di un esempio firmato sotto il tiro incrociato dei mitragliatori. Più di qualcuno lo ricorda quel mattino nel quale le locandine parlavano di lui a tinte-fosche: era semplice, quel giorno, imboscarsi in qualche clausura a pregare Dio che accelerasse il parto della verità. Scelse, invece, di mostrarsi educatore-educato proprio in quelle ore nelle quali si fece buio pesto: attraversò la città per andare a celebrare la messa mattutina, comperò i giornali che parlavano di lui, andò da un gruppo di preti a narrare come la fede sia un ombrello in una giornata di pioggia, non un vessillo da portare in trionfo: «La verità vi farà liberi». Liberi di muoversi alla luce del sole: chi lo vide gli credette.
Nel deserto non è mai rimasto solo a pregare, forse anche a vagare un po’ intontito: ogni deserto, da qualche parte, nasconde un pozzo. Pozzi che sono storie, presenze, tracce d’amore: schiere innumerevoli di ragazzi cresciuti alla sua scuola, comunità di genitori che gli hanno raddoppiato l’accredito, frotte di preti che si son scoperti più umani nel pieno della tribolazione. Il fatto sussiste, dunque: ancora una volta Dio ha voluto mostrarci che la perla è un’ostrica ferita, che l’olio è un’oliva torchiata, che il fiore è una gemma esplosa. Che l’amore è un uomo crocifisso: che non esiste la brutalità, esiste solamente la mancanza della bellezza. Quella ch’è tipica di chi «educa senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono» (D. Dolci). Da questo fatto-che-sussiste, don Gino esce con un’umanità trasfigurata: i medici migliori, volendo dar fiducia alla sapienza greca, erano i medici feriti. Il prete è un guaritore ferito.
C’è una legge inscritta nella natura, legge che muove anche gli astri del cielo: sono gli alberi più alti quelli più a rischio d’essere sbattuti dal vento. Oggi che il bel-tempo è tornato a splendere nel cuore della diocesi di Padova, non c’è traccia di rivalsa alcuna. Solo una confidenza: «Per me è finito un incubo». E un grazie, da chi scrive, per aver accettato di giocarsi in tribunale l’intera sua avventura d’educatore. Uscendone sfinito, ma lasciando traccia di cosa sia la coerenza: «Il sincero accordo tra un uomo e la vita che conduce» (A. Camus).
(da Il Mattino di Padova, 24 luglio 2016)
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