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Il Veneto è una terra strana: è il nome di una delle venti regioni d’Italia, è anche un profumo, un’emozione. Non è il nome di un pianeta, di un continente, manco di una confederazione come si delira da decenni. Chi nasce da queste parti trasforma la felicità d’essere nato qui con l’orgoglio di esser veneto. Perchè quando ti fermi a scrutare il passato, la testa intontisce: la sua storia millenaria ti prende per mano e ti porta via. T’inghiotte nel silenzio di misteri indecifrabili. Nei millenni: battaglie, indigenza, pestilenze. Sangue, lacrime, ferite. Guerra, morte, resistenza. Il sangue, la follia. Redipuglia, Bassano del Grappa, Asiago: ponti, sacrari e cimeli. Torrenti, trincee, cielo: in Veneto passano le nuvole più belle.
Al tempo della scuola elementare, prima d’iniziare un tema d’italiano, la litania della maestra era sempre la stessa: “In alto, a sinistra, nome-cognome. E sulla destra “Calvene, virgola, e mettete la data di oggi”. Mi son sempre chiesto perchè la maestra imponesse l’obbligo di scrivere il nome del paese: sapevamo tutti d’essere nati in quell’angolo di terra così simile al Paradiso. Un giorno, non riuscendo a capire il motivo, ho smesso di chiedermelo. D’allora, ho iniziato a tenerlo legato per sempre al mio nome, quasi fosse il mio secondo cognome: “Marco Pozza di Calvene”. Quanto mi piace sentire pronunciare il nome di casa mia: nato a Calvene, residente a Calvene. Un mio professore, un giorno, tentò d’offendermi: “Sei rimasto bloccato a Calvene?” – mi disse vedendomi con la testa fra le nuvole. Ancora una volta fallì il bersaglio. Mi aveva fatto un elogio sublime: la vita mi ha portato a lasciare il mio paese, non ho mai lasciato che il mio paese mi abbandonasse. Quando morirò, vorrò essere sepolto a Calvene, il paese dove il vero successo della vita si misura il giorno del tuo funerale.
Dove gli anziani, incrociandoti, quasi pretendono il saluto.
E’ bellissimo: si dovrebbe vivere così dappertutto.
Calvene, nella grammatica del mio cuore, è complemento di stato in luogo: è la mia piccola Betlemme, il punto in cui ho poggiato piede il giorno in cui sono venuto al mondo. Il suo nome, il suo ricordo, è sempre stato nella prima riga dei miei compiti in classe. Scordarlo, per l’Assunta era motivo di insufficienza grave nella valutazione dell’elaborato: «Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo» (Sal 137,5-6). Betlemme, Nazareth, Gerusalemme, Calvene: è la mia geografia sacra.

 «Il complemento di stato in luogo – mi pare ancora di vederla, di spalle, la maestra mentre scriveva alla lavagna – indica il luogo in cui si trova qualcuno o qualcosa, in cui si svolge l’azione espressa dal predicato o in cui si verifica una certa situazione».

Una patria galera nel Nord-Est è oggi la mia parrocchia, la mia porzione di Chiesa universale. La galera è il paese degli apolidi, dei senza casa. Qualcuno, dentro, è nato in galera (complemento di stato in luogo, ndr) come io sono nato a Calvene. Scortato da uomini con storie sbiadite, Dio mi sta portando a spasso nel paese dei suoi sogni su di me. Qui dentro, la maestra Assunta ha un degno supplente per continuare ad insegnarmi l’italiano: si chiama Antonio e la scuola l’ha abbandonata in quarta elementare. La sua Calvene è Secondigliano, zona Scampia: contrabbando, (s)grammatica. «Credimi, donMà, quando faccio il tuo chierichetto mi sento importante» mi dice spesso.
Siamo tutti dentro l’evoluzione della specie.
Una domenica, a messa, abbiamo pregato per Alessio, un ragazzo che nel pomeriggio sarebbe stato consacrato sacerdote. Lì dentro lo conoscevano tutti, aveva vissuto assieme a noi un anno della sua formazione. Invito i miei ragazzi a pregare per lui, per il suo destino di prete: “Quando ci capitano incontri come quello con Alessio – dico loro – abbiamo la certezza d’essere nelle mani di Dio”. Quante volte, da bambino, mi sono sentito ripetere quello che tutt’ora in tanti mi dicono, contemplando le capriole del mio sacerdozio: “Sei proprio nelle mani di Dio, (don) Marco”. E per uno che ha sempre avuto paura cane di restare solo, è il complemento di compagnia più bello mai scritto in lingua corrente.
«Andate in pace (Amen)». Li mando tutti a casa: ops, in cella. In sacristia, mentre si toglie la veste, Antonio mi fissa, tra lo stralunato e il pensieroso: è l’avvisaglia che sta per partorire qualcosa d’ingegnoso. «Siamo nelle mani di Dio, donMà: hai detto una cosa bellissima».
Chissà dove vuol andare a parare, il napoletano.
Carica il colpo come caricava i fucili, organizza le parole, ha ancora mira di cecchino: «Un giorno non capivo cosa fosse quella cosa che alzavi a messa. E tu mi hai detto: “Quel pezzo di pane è Dio, Antonio”. Ricordo bene!»
Lo guardo: un pizzico d’orgoglio m’invade l’anima. Vado sempre fiero dei progressi in materia di catechesi dei miei lupi di galera.
Di Antonio: «Hai visto che, quando vuoi, capisci le cose al volo senza che te le rispieghi un’altra volta» gli dico.
Lui, tempo un istante, mi (ri)mette pancia a terra: «Noi siamo nelle mani di Dio, donMà. Però, durante la messa, Dio è nelle tue mani allora. E’ giusto il mio ragionamento, donMà

«E’ introdotto – concluse – dalle preposizioni “in, a, dentro, fuori, tra, fra, sopra, sotto, presso”. Il complemento di stato in luogo risponde alle domande: “Dove, in quale luogo?”». 

A messa Dio è in mano mia: complemento di stato in luogo.
Complimento gravoso di bandito. Che, qui dentro, fa ripassi di grammatica.

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