Quando si dice “fare le cose di fretta”. Ch’è poi l’annuncio e l’anticipo di un mezzo misfatto: a scuola, in amore, alla scrivania d’ufficio come ai fornelli di casa. La fretta: maledetta, imbastardita, ingannatrice. Matrigna travestita da nobildonna, «quell’eccitatissima perversione di vita: la necessità di compiere qualcosa in un tempo minore di quanto in realtà ne occorrerebbe» (E. Hemingway, Verdi colline dell’Africa). Che poi, in ginocchio a sgomitare col Vangelo, non sempre far le cose di fretta è sinonimo di catastrofi e cantonate: se a far le cose di fretta fosse il Cielo?
Giammai capitasse – eccome se capita tra le strade screpolate dal tempo monello di Galilea – quei colpi di testa, arraffati in fretta, son colpi che fanno male. Che spiazzano e lasciano impietriti, alquanto sospettosi: come certe accelerate di fuoriclasse sferrate quando meno t’aspetti. Che ti lasciano lì inebetito a succhiare la polvere, a leccare l’asfalto, a dare di testa pur di non perdere la scia. Di perdersi nella scia.
Gerico, la Nizza di Giudea. La città – covo di sgualdrine d’alto borgo – detta profumata, anche nel nome: l’ironia del Vangelo non conosce avversari ne avversità quand’è di passaggio. Lei “la profumata”, lui “il puro”: in realtà un tipo mingherlino, capo ufficio delle dogane. Non s’arresta l’Uomo che non conosce tetto sotto il quale dormire: entra e fra poco uscirà. Sembr’avere fretta, è di fretta, si vede che ha fretta: “Zaccheo, scendi subito, perchè oggi devo fermarmi a casa tua”(Lc 19,5). Più che fretta è puntualità: e quand’è in ballo la salvezza non son concessi minuti di ritardo, nemmeno istanti d’anticipo: farsi trovare pronti è l’orario esatto (liturgia della XXXI^ domenica del tempo ordinario).
Esserci quand’avviene l’accelerata, questa è la salvezza: «Quella cambiale firmata, il più imbroccato affare della sua vita» (L. Santucci, Una vita di Cristo). Di fretta a Gerico, di corsa sulle montagne della Giudea, all’istante sulla battigia di Cafarnao, in un lampo sulla croce del Golgota. Con Giuda: “Quello che vuoi fare fallo al più presto” (Gv 13,27) Perchè lasciar pendere sull’albero il frutto quand’è maturo? La pietanza sul fornello quand’è pronta? L’amore del cuore quand’è compiuto? Non c’è nulla come la fretta che faccia perder tempo; non c’è nulla come la fretta che indispettisca l’uomo del Vangelo. Perchè quando a far le cose di fretta è il Cielo, c’è forse un’urgenza da rispettare. Un’esistenza da riagganciare.
Il Vangelo è una pellicola di pazienza: l’attesa e il desiderio, l’apparente ritardo e l’inaudito della sorpresa, la gravidanza e l’agonia, Betlemme e Gerusalemme: di mezzo Nazareth e trent’anni a dare di mano alla pialla. Alle supposizioni dell’oste e degli avventori. L’attesa delle donne di Betania, quello delle donne del Sabato Santo, quello della vedova al cimitero col figlio nella bara.
Pazienza: ci vuole pazienza, tanta pazienza, un granaio di pazienza per non bestemmiare il Cielo. Col medesimo ch’è anche un fotogramma d’urgenza, d’inspiegabile rapidità: come di chi è sul ciglio di una perdita. Con Lazzaro e Zaccheo, con Mosè e Abramo, con pastori e ortolani. Con Maria, con Timeo, coll’uomo della locanda da affittare a Gerusalemme. Col ladrone: quella volta la fretta fu insopportabile, recalcitrante. Una fretta come di bandito all’opera.
La pazienza. Un anno ancora al fico perchè si dia una mossa, quaranta giorni a Ninive per mutare d’aspetto, otto giorni ad Abramo per ricredersi. Un lustro a me: certuni abbisognano dei tempi lunghi per trovare strada. La fretta: oggi, subito, di fretta, veloce. Il ritmo dell’Amore cui nulla vuole che vada perduto: quando l’uomo è nelle fauci del Male, con uno sguardo Cristo “fa le cose in fretta”.
Che poi non significa affatto far le cose a caso, bensì con la tempestività di chi nel tempo sa di armeggiare la salvezza. Di Chi s’è fatto tempo – storia, stagioni, bracconaggi e inseguimenti – per addestrare a non perder tempo.
Per non perdere l’attimo della salvezza. Del riscatto.
(M. Pozza, L’imbarazzo di Dio, San Paolo 2013)