Tra gli occhi e la Coppa stavano gli ultimi 90 minuti. Dietro lo sguardo tutto il resto: previsioni e proiezioni, tattiche e disposizioni, allenamenti e ritiri, incertezze e sogni, paura e orgoglio. Sacrificio e abnegazione. Un frammento d’esistenza umana – quel pomeriggio che anticipa la serata – in cui la testa di un mister somiglia ad un gomitolo di mille pensieri che decidono di scombussolare le traiettorie. Fino a produrre eccitazione, stordimento, tremolìo. Ore splendide e tremende, affascinanti e misteriose, seduttrici e assassine. Ma sono anche le ore del cuore: quelle che – in un battito d’ali di farfalla – ti presentano davanti agli occhi i mille sguardi che t’han sospinto sin lì, ad un passo dall’Olimpo degli Dei. Facile scansarle, umano degnarle d’un cenno di saluto, nobile ringraziarle per quel segreto che t’hanno dato in dote per permetterti di volare.
La finale della Champions League sportivamente ha tanti eroi: da Messi a Ronaldo, da Eto’o a Piquet, da Van der Sar a Valdes, da Rooney ad Henry. Passando per Puyol, Toure ed Evra. Eroi in una notte di magie e di stelle, di sorrisi e pianti, di profumi e brividi. Ma la finale ha registrato tra i suoi riverberi più nobili la commovente storia di Pep Guardiola, allenatore del Barca dei miracoli. Giovane, ricco, famoso, acclamato, osannato, sospinto, eccitato e incitato. Rincorso, applaudito, ricercato. Tutto gli era concesso in quello strano pomeriggio passato nel lusso di via Veneto: shopping e autografi, onori e ribalta, gossip e provocazioni. A questa polvere di stelle ha preferito ricordarsi di quell’omino canuto e tempestoso che gli aveva insegnato la traiettoria dei voli e la leggerezza dei tocchi. Ad un passo dalla gloria, riannodò la memoria e si rivide calciatore sui campi erbosi di un Brescia di provincia. Spalla a spalla con l’essenza del calcio: quel Roberto Baggio di cui la storia racconta la polvere e l’altare. In panchina stava Carletto Mazzone: quello degli sfottò sotto la curva, della passione per la provincia, della vecchiaia al potere. Della semplicità che premia. Quello che dei suoi atleti conosceva l’altra faccia della medaglia: storie, vissuti, desideri. E da lì partiva per sognare la salvezza, per inseguire la follia, per accendere l’orgoglio. Guardiola tutto questo lo sapeva. E da qui è partito per far sognare la grande Barcellona: dalle urla di Carletto, l’antidivo dai capelli spettinati. E nella frenesia di quel pomeriggio ha iniziato a costruire la sua vittoria: con una telefonata. “Mister, come sta? Verrebbe a vedere la finale di Champions all’Olimpico?” Non riconosciuto dal vecchio allenatore aggiunge: “Sono Pep Guardiola”. Chissà il volto di Mazzone. Appena prima della gloria, ha cercato l’umanità di chi gli aveva insegnato a volare alto. Alto: fino al cielo dove la Coppa s’addentra nel misterioso intreccio di galassie, nebulose e stelle cadenti. Fino a farti sentire il brivido di qualcosa d’eterno.
Un tocco di umanità nel groviglio fascinoso di prodezze atletiche. Un gesto semplice, spontaneo, quasi da bambino che in un pianeta dorato, viziato e strapazzato come il “pianeta sport” mostra il suo lato B…ello. Perchè lo sport è competizione, agonismo e allenamento. Ma è anche questione di stile: quello stile che in punta di piedi, mentre tutti ti cercano, t’accompagna a ringraziare chi t’ha insegnato i fondamentali della vita, dello sport, dell’umano. E, come se non bastasse, la conferma arriva a notte inoltrata, all’altro capo di Roma. La Coppa è vinta, la gloria è stretta, lo stadio è nel pieno della sua celebrazione religiosa. Lui, Pep Guardiola, concede il bis della sua umana sportività: “Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e soprattutto a Maldini, un esempio per tutti”: Come rinfacciare l’ignobiltà con estrema eleganza.
Chapeau, mister Guardiola: la classe non è acqua.