«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 6-7): queste parole di san Paolo mi hanno sempre colpito, per il sano realismo da cui sono vivificate.
Da quando nasciamo, la morte ci sovrasta come una minaccia incessante. Ogni nato, prima o poi, morirà. È la legge della vita. Nel momento in cui siamo nati, ci siamo iscritti all’elenco dei morti. Quando e come rimangono per molti un mistero se non fino alla fine, comunque fino alla prossimità del proprio decesso. Per altri, più dettagli sono rivelati, nel corso della vita. Ma è pur vero, per tutti, che nessuno può dire di conoscere “né il giorno né l’ora” della propria morte.
Eppure, nonostante questa certezza incrollabile, che ci viene dall’esperienza vissuta, oltre che dalla biologia, rimaniamo sempre, inequivocabilmente, saldamente ancorati alla vita e facciamo fatica a rinunciarvi. Tant’è vero che, difficilmente, siamo disposti ad offrirla, a donarla. Forse, riusciamo a pensare ad un simile dono, tanto disinteressato, per i nostri affetti più cari (figli, moglie o marito, familiari più vicini, amici fraterni).
Già più impegnativa si fa la risposta, se andiamo ad analizzare una simile domanda rispetto ad uno sconosciuto. Molto spesso, di fronte a quest’ipotesi, scatta, anche nei più insospettabili, un moralismo senza pari. Se ci è chiesto di offrire la nostra vita, per uno sconosciuto, forse, potremmo anche accettare. Purché sia moralmente irreprensibile. Insomma: siamo consapevoli che la nostra vita è una sola e, se si tratta di donarla, il rischio che vada sprecata dev’essere prossimo allo zero (assoluto).
Quant’è diversa la concezione che Dio ha di noi!
La misura dell’amore di Dio è un amore senza misura! Di fronte all’uomo, specie in difficoltà, il cuore di Dio sanguina. Non pensa più alla proporzione. Diventa sproporzionatamente generoso. Come una madre, al vedere il figlioletto in difficoltà, ferito, umiliato, sofferente, diventa disposta a qualunque cosa, pur di vederlo sorridere. Persino a dare la vita. Anche quando è ancora in grembo e, dunque, non può conoscere quale sia il suo livello d’irreprensibilità morale, né il suo carattere, la sua simpatia, il successo che potrà raggiungere. Sa solo che è un figlio. E un figlio, sofferente, è il primo pensiero di ogni madre.
Un Dio a perdere. Uno che mòla mia. Anzi, al contrario. Che s’incaponisce, soprattutto con il figlio più recalcitrante, scapestrato, indisponente. Che si ostina a vedere anche nel poco di buono, quel seme di bontà, pronto a far germogliare la pianta di senape più grande e frondosa che ci sia.
Il peccato è il male più grande che affligga l’uomo, perché è la fonte da cui proviene la sua mancanza di libertà. Per questo, troviamo spesso la malattia ed il peccato accostati. Perché sono entrambe limitazioni alla libertà. La radice di tutto risiede, però, nel peccato, per cui Cristo, dopo una guarigione, insiste sulla liberazione dal peccato. Non è un dettaglio da poco, perché ci comunica due cose: la prima che Lui è Dio, perché solo Dio può rimettere i peccati; la seconda è che solo andando alla radice del problema, è possibile recuperare non solo la salute, bensì la salvezza complessiva dell’essere umano.
Nel colloquio notturno con Nicodemo, che leggiamo nel Vangelo di Giovanni, possiamo notare un passaggio ulteriore. Cristo non va verso la Croce unicamente per “spirito di sacrificio”. La Croce è croce gloriosa. È – già – preludio della Resurrezione. Non è la fine di tutto. È solo la conclusione dell’avventura terrena di Cristo. Che, però, è già proiettata più in là. Oltre. «Nessuno è mai salito al Cielo, se non colui che è disceso dal Cielo, il Figlio dell’uomo» (Gv 3, 13). Salire al cielo fa riguadagnare al Figlio dell’Uomo il posto che gli è proprio, non prima, però, di avere dischiuso le sue porte, nell’invito ad una comunione eterna, per ciascuno di noi, nel seno della Santissima Trinità.
Quindi, non solo Cristo muore per noi. È per noi anche la Sua resurrezione. Nella sofferenza della Croce, si spalancano già le finestre sulla gloria della resurrezione.
A fronte di una prospettiva di possesso e di merito, che tende ad inquinare anche i rapporti che vorremmo fossero i più autentici, Dio ci pone innanzi lo scandalo – senza tempo – della gratuità, di una generosità disposta a perdere, pur di conquistarsi un cuore da amare.
Dio ci ama. Incondizionatamente. Perché ci ama da prima. Quanto prima? «Prima che il mondo fosse» (Gv 17, 4): è a quel tempo che risale la gloria del Figlio dell’uomo, a quel tempo la decisione di una spoliazione totale (kènosis), pur di riconquistare l’uomo che si era perduto e ridonare loro il vero nome di Dio, perché sapessero chi invocare a Chi ritornare.
Per questo, Dio ci precede. Precede ogni sforzo di conversione, ogni volontà di cambiare, ogni decisione di presentarci migliori al duo cospetto.
Ci precede, per aspettarci.
Attende la nostra risposta d’amore al suo amore, colmando di speranza e di fiducia, lo spazio tra l’appello e la risposta.
Rif. letture festive ambrosiane, nella III domenica dopo la Decollazione, anno B
Fonte immagine: Pexels