shutterstock donna violentaStorie diverse. Luoghi diversi. Tempi diversi. Età diverse. Diverse le vittime, ma identici gli ingranaggi inceppati.
Amore, gelosia, rancore, dipendenza affettiva, possessività. Ma cosa veramente porta a una drammatica inversione di tendenza? Perché l’oggetto d’amore diventa un oggetto d’ossessione? Da colpire, sfigurare, umiliare, uccidere. Eliminare completamente, togliendogli la vita, spengnendone l’esistenza. Salvo poi, spesso, porre fine, in un’ultimo rinsavimento – od orrorifico proseguimento della follia – alla propria.
Gesti estremi, folli. Probabilmente, però si tratta solo della punta di un iceberg. Difficile, infatti, quando non impossibile pensare che tutto ciò abbia luogo all’improvviso, senza un motivo né precedenti che possano instillare il dubbio di un finale del genere.
La magia dell’innamoramento. Due sguardi che si sfiorano, senza toccarsi. Il miracolo della reciprocità di emozioni e sentimenti. Il corteggiamento, i primi timidi contatti. I baci, gli abbracci, le carezze, le affettuosità coniugali. Poi, l’epilogo: brutale, disumano.
La sfigurazione del volto che era stato amato, con l’acido. E non per una fatalità della vita. Ma per specifica ed espressa volontà dell’amante ormai respinta. L’incapacità di accettare una fine. La necessità – avvertita unilateralmente – di continuare anche ciò che è rimasto senza storia.
Certo, sfigurare una persona non è una cosa simpatica, ma visto il numero degli episodi in cui l’epilogo è l’uccisione del partner, verrebbe da ritenere sia quasi stato fortunato.

Senza dilungarci oltre, basti pensare che gli altri due esempi riportati negli articoli a fondo pagina vedono due morti, entrambe due donne; una è una ragazza di sedici anni che ha trovato la morte in un modo atroce: bruciata.
Non so se sia l’influenza di una mentalità attuale troppo egocentrica, ma forse stiamo perdendo pezzi per strada. Perché sono solo tre episodi di cronaca, ma non sono solo quello. Sono sintomo di un male d’amore che ci attanaglia tutti.
Ci hanno insegnato che abbiamo diritto all’amore, ad essere amati, rispettati; che abbiamo diritto di non stare con chi non vogliamo più e che abbiao diritto a divorziare, se ci siamo stancati di un matrimonio rinsecchito come una pianta d’autunno, troppo arido per poterci dare quel nutrimento vitale d’amore che necessitiamo. Rivendichiamo – anche giustamente in molti casi, beninteso – i nostri diritti, ciò che ci serve, ciò che ci è necessario.
Ma, forse, ci stiamo dimenticando d’imparare qualcosa di altrettanto importante. La reciprocità della libertà e la necessità del rispetto verso l’altro (chiunque sia, coniuge compreso) nella sua irresolubile alterità.
L’altro ha un bagaglio inestricabile, insostituibile e a volte anche incomprensibile di sogni, progetti, desideri, emozioni. Non sempre condivisibili, né apprezzabili ai nostri occhi. Ma sono ciò che lo rendono se stesso, sono inequivocabilmente dentro di lui, per renderlo la persona che è, coi suoi pregi e i suoi difetti. E il primo e indispensabile sentimento da provare nei suoi confronti è il rispetto. Rispetto per quell’altro sé che forma la coppia, ma la cui vita non è né può essere – completamente – riconducibile alla nostra.
La coppia, infatti, non può essere il termine ultimo a cui ricondurre l’intera vita dell’altro. Senza dubbio, la gelosia è parte integrante dell’amore a due, senza la quale si ridurrebbe a una qualche altra forma d’amore. La gelosia è sintomo dell’esclusività di quel rapporto, che richiede atteggiamenti unici e particolari, non riproducibili con nessun altro. Tuttavia, al di fuori di questi, il matrimonio non può e non deve essere una gabbia dorata entro la quale imprigionarsi vicendevolmente: l’amore vero va oltre il romanticismo narcisistico, spinge la coppia – insieme! – verso nuovi obiettivi da condividere, per cui sognare insieme progetti comuni. L’amore chiama amore e si espande in cerchi concentrici, come quelli che fanno i sassi nell’acqua e prosegue senza fine, perché l’amore vede i limiti, strizza un occhio e poi lancia lo sguardo oltre essi.
Si può amare senza possedere? Forse la domanda è sbagliata. Forse si tratta di capire come prendersi cura dell’altro come la propria carne, senza trattarlo – direttamente o indirettamente – come un proprio possesso e quindi come una cosa. Forse è proprio qui il bandolo della matassa da recuperare con urgenza. Riscoprire la ricchezza dell’essere umano che lo rende irrangiungibilmente bello, al cospetto di tutto quanto è una sua fabbricazione. Ciò che costruisce può considerare suo. Ma ciò che si riceve, è dono da custodire. Cambiare questa prospettiva è fondamentale per ottenere un rispetto di sé e degli altri, anche all’interno della coppia. Ogni tanto, l’intimità e la confidenza possono infatti essere scambiate come alibi per oltraggiare, umiliare, immiserire l’altro (e, con l’altro, se stessi). La mentalità del possesso rovina i rapporti, perché spinge a basare tutto sull’avere o non avere, mettendo in secondo piano l’essere, con tutto ciò che comporta: di fronte alla perdita si sfiora la pazzia, quando non vi si arriva, perché l’impossibilità di avere l’oggetto del desiderio è vista come un’ingiustizia a cui porre fine nel modo più veloce ed efficace possibile.
Amare ed essere amati è lo scopo della vita, è ciò che rende luomo quello che è e ne dà la cifra del suo valore; anzi, se ben ci pensiamo, in un modo o nell’altro ogni gioia e dolore è riconducibile a ciò. Siamo felici quando qualcuno ci ama, o quando ci rendiamo conto di amare. Siamo tristi se abbiamo ferito qualuno o siamo stati feriti. Siamo soddisfatti se siamo riusciti a tirare qualcuno fuori dai guai, siamo abbattuti se invece non ne siamo stati in grado. Ed è così persino quando queste cose non sono completamente dalla nostra bravura oppure sono indipendenti da noi. Basti pensare a quel che succede quando la malattia o la morte colpisce uno dei nostri cari o congiunti. Ci sentiamo annichiliti, perché sentiamo annichilita e impotente la nostra possibilità di amarli ancora.
È la perdita che ci spaventa e ci fa fare cose impensabili, pur di evitare il dolore, ma anche l’angoscia di un distacco che potrebbe anche essere eterno.


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