Partire è sempre un po’ morire. Perché ogni distacco comporta lo sfilacciamento, almeno temporaneo, di un legame. Richiede di accettare la sfida della lontananza. Eppure, spesso, ci rendiamo conto, che è proprio il distacco che ci fa crescere, all’interno di un rapporto. Che l’allontanamento è solo apparente, dovuto alla contingenza di una situazione, ma non sostanziale ed esistenziale. Possiamo esserci, gli uni per gli altri, anche quando non siamo costantemente al loro fianco. Anche perché, tante volte, non esserlo, è una benedizione.
C’è, infatti, un malinteso nel concetto di presenza che, talvolta, ci mette in difficoltà. Ci convinciamo che, per poter essere d’aiuto, dobbiamo scodinzolare accanto alle persone, offrendo tutto l’aiuto possibile, anche quando non richiesto, offrendo a Dio ogni sofferenza che derivi da un possibile rifiuto. A volte, però è un autoconvincimento di bene che non ha alcun fondamento nella Parola di Dio, ma solo nella nostra testa. Il rifiuto che riceviamo è un santo rifiuto e non un’offerta oblativa, perché l’amore che offriamo non è donato, ma necessità di gratificazione nell’adempimento di un dovere che ci imponiamo e in cui riceviamo gratificazione perché siamo convinti che, in questo modo ci rendiamo utili. Spesso, però, non è così.
Ci sono passi indietro che sono salubri. Ci sono spazi che sono sacrosanti e che, se li concediamo, sono atti d’amore più puri che un forzato prenderci a cura chi ha solo bisogno di respirare più ossigeno e libertà, invece che rimanere imprigionato dai nostri gesti non richiesti d’attenzione, che ottengono solo d’avvinghiare l’altro in un insano sentimento di gratitudine forzata, che nasce dall’accorgersi di una fatica compiuta per lui.
La preghiera di Gesù, che il diciassettesimo capitolo di Giovanni Apostolo ci consegna è un inno alla libertà, nell’amore della Verità:
«Padre, io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17, 11-19).
La prima cura di Cristo è quella di amorevole custodia. Lo abbiamo visto nel Getsemani. Giunta la sua ora, Cristo stesso si fa avanti, andandole incontro. Non una sofferenza cercata, ma, una volta accolta, vissuta in pienezza. Riservandosi però l’estrema attenzione nei confronti dei suoi: che rimanessero assieme. Sapeva che sarebbero rimasti smarriti; ma un conto è rimanere sconvolti da soli, un conto rimanere, comunque, uniti. Cristo invita a giocare di squadra. Nella difficile sfida, che sempre costituisce il mettere insieme le teste, i cuori, le anime e i corpi di individui tra loro differenti, da sempre il Signore suggerisce che siamo fatti per stare insieme. Anche se, a volte, vorremmo fuggirne, vorremmo chiudere ogni ponte e prendere un’altra strada, convinti che la nostra sia sicuramente migliore di quella della Chiesa, piena zeppa di peccatori e di anime storte. Ogni volta che, però, ci incamminiamo in solitudine e, magari riceviamo anche la subitanea soddisfazione che – guarda un po’ – camminiamo persino più veloci e spediti e questo ci gratifica, notiamo presto che quella strada è forse più veloce, ma manca Qualcuno. È Cristo stesso, rimasto indietro, a soccorrere chi ha il passo più lento. Di solito, in quello stesso momento, avvertendo una fatica, ci fermiamo anche noi, a dissetarci. È in quel momento che ci guardiamo allo specchio. E notiamo, in quel frangente, cos’abbiamo di fronte: quell’anima così apparentemente perfetta da considerare di poterla separare dalle altre, vista da vicino è sporca, sudata, infangata; sotto l’abito da festa, la fatica resta. Ci eravamo solo illusi di poter avanzare da soli!
È una grazia, da accogliere, renderci conto di questo. Ce lo ricorda il figlio della perdizione. Non basta che Cristo dica il nostro nome. Non basta sedere a mensa coi Dodici. Il Male può insinuarsi, subdolo, tra le pieghe della nostra preghiera, anzi, magari proprio dove ci sentiamo più sicuri ed inattaccabili. Ogni giorno, la nostra libertà ha spazio per giocarsi. Ogni giorno, ha luogo la nostra scelta. Con Cristo o con il Nemico. Non possiamo permetterci – come le intelligenze angeliche – una scelta di campo unica e definitiva. La nostra volontà si dipana nel tempo e le è necessario rinnovare la propria scelta, conformemente ad una fedeltà che si acquista solo con lo scorrere delle stagioni e mai in automatico. Dovremmo averne paura? Al contrario, è la testimonianza più autentica dell’amore più tenace di Cristo, non solo per la propria piccola creatura, ma per la libertà di cui l’ha dotata. Non esiste nulla – neppure il tradimento più nefasto – che possa far recedere Dio dal suo dono per l’uomo (la libertà). Non ha mai pensato di ridurci a burattini nelle sue mani, purché compissimo quel bene che ci mostra il vero volto di Dio, che si riflette nell’uomo, quando non è adombrato dal peccato e dalla concupiscenza. Nella sua infinita pazienza, Lui aspetta che siamo noi a scegliere di assomigliarGli, in una risposta d’amore libero!
Scegliere Cristo è scegliere la Verità. Una parola che spaventa, oggi. Da molti, considerata una chimera, un’utopia, qualcosa di non raggiungibile. In Cristo, diventa un altro nome dell’amore, incarnato nella Persona stessa di Cristo: ecco perché, pur nel rischio della moderna incomprensione (che vede nella proclamazione della Verità un atto di superba arroganza e – quasi – di prepotente soverchieria), diventa imprescindibile amare e ricercare la Verità con tutte le nostre forze, nel mistero costitutivo della fede, di cui parla san Paolo, nella prima Lettera a Timoteo:
egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto giusto nello Spirito, fu visto dagli angeli e annunciato fra le genti, fu creduto nel mondo ed elevato nella gloria (1Tm 3, 16).
Gesù di Nazareth. Vero Uomo e Vero Dio. Vivo ieri, oggi e sempre.
Ci insegna il coraggio di sapersi staccare, senz’abbandonare, di lasciare liberi, perché è solo nella libertà che possiamo trovare lo spazio per crescere, come una pianta che è certamente più sicura in un vaso, ma non riesce ad espandere le proprie radici, dando vita a ciò per cui è nata davvero,
Ci accompagna, ancora oggi, per le strade del mondo, nella libertà di figli di Dio che possano giocarsi la vita, corrispondendo allo sguardo di un Dio, che lo ama dall’inizio dei tempi e sogna, per ciascuno, la pienezza della gioia!
Rif. letture festive ambrosiane, nella Domenica dopo l’Ascensione, VII del Tempo Pasquale, Anno B
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