La legge e la realtàdi Simone Caltran, dal blog Rio Terà, venerdì 20 novembre 2009

neonati1A chi, come noi è al terzo figlio, il congedo parentale suona abbastanza famigliare. In breve: non si tratta solo della famosa “maternità” che spetta alla mamma nei mesi precedenti e successivi al parto per il meritato riposo e per garantire al neonato una presenza costante durante i primi momenti di vita in questo mondo. Si tratta anche della possibilità data al padre di assentarsi dal lavoro per un totale di sette mesi nell’arco dei primi otto anni del bambino.
Martedì 17 è nata Marina e da lunedì mi prendo il (suo) meritato congedo perché possa godere anche del padre a tempo pieno e per essere minimamente d’aiuto nell’impegnativa, quanto gratificante, gestione del resto della truppa e di tutto l’ambaradan.
E’ di ieri, invece, la notizia che il Tribunale di Firenze, ha riconosciuto la possibilità di “andare in paternità” anche da un mese o due precedenti alla presunta data del parto, e di conseguenza per i quattro o tre successivi. La decisione parte da un cambiamento di principio dettato anche dalla Corte Costituzionale. Un tempo il periodo di maternità era pensato per salvaguardare la salute della madre. Adesso si intende anche come tutela di quella del bambino. E allora il ruolo del padre diventa fondamentale, anche se si è ancora in fase di gestazione. Aiutare la compagna incinta nell’ultimo periodo della gravidanza vuol dire anche occuparsi del nascituro.
Tutto questo è un bene. Ma non fa i conti con la realtà.

Ogni giorno è una frenetica ed appassionata corsa contro il tempo per organizzare tutto e gestire ogni impegno dei figli con le necessità del lavoro. Coordinarsi per arrivare puntuale senza quindi indispettire nessuno, soprattutto chi da sempre ha sposato il lavoro piuttosto che la moglie o chi accudisce più la propria poltrona e la propria carriera che i propri figli. I capi molto spesso sono così. Le loro priorità non sono le mie, non so se sono le vostre. Già è difficile gestire ritardi, permessi, imprevisti per evitare musi lunghi ed un’aria piuttosto pesante che vorrebbe (ma non ci riesce) incutere sensi di colpa figurarsi settimane di assenza maschile. Ben comprendo le necessità aziendali, veramente, ma chi comprende le mie? Le nostre? Quelle di milioni di famiglie?
Alla base di tutto Il problema è sempre il solito, il problema è culturale. Fare una legge significa riconoscere un diritto, sancirlo nel sistema che tiene in piedi un paese ma chi, poi, lo può difendere? Tocca al singolo far capire ai propri superiori che ci sono delle cose più importanti e che non si tratta solo della gestione pratica di una famiglia, ma si tratta delle vite dei nostri figli; tocca a me, tocca noi superare timori (e ricordarsi di quel diritto aiuta) per chiedere il permesso di stare a casa, tocca a noi mandar giù rospi e brutti musi e prepararsi, perché prima o poi te la faranno pagare in termini di pressioni e carichi di lavoro.
Se si risolvesse il problema dal punto di vista culturale sarebbe molto più facile. Dovremmo vivere in un mondo molto meno maschilista, in un luogo utopico dove ci ferma di fronte al mistero ed alla bellezza della vita, dove la si mette davanti a budget e fatturati, dove se corressimo (per andare dove poi?) di meno staremmo tutti sicuramente meglio. In un mondo nel quale chi diventa capo possa ricordare di avere avuto un padre che gli è stato vicino e che a sua volta dica “Ti è nato un figlio? Stagli vicino, stai vicino a tua moglie, fai sentire la tua presenza. Qui ci arrangiamo. Anche mio padre ha fatto così con me e anche se ero molto piccolo me lo ricordo”.
Sono pazzo o sto sognando? Nella nostra società è impresa molto ardua, sto chiedendo molto me ne rendo conto ma chiederei una cosa normale, invece qui si va sempre contrariamente al buon senso.
Quella norma di cui parlavo inizialmente si esaurisce da sola e i capi possono dormire sonni tranquilli. La stessa norma che sancisce quel diritto ne fissa anche il termini economici: il padre che sta a casa percepisce, a carico dell’INPS, il 30% dello stipendio. Dove vuoi andare con questa miseria? Ancora una volta non si fanno i conti con la realtà. O, meglio, si fanno eccome e allora rinunci, limiti al minimo.
E non mancano, infine, i cattivi esempi. C’è una ministra al quinto mese di gravidanza. Nei giorni scorsi ha dichiarato, sicura e fiera, che non farà mancare al Paese il suo servizio per neanche un giorno e che sarà sempre presente al suo posto nonostante la sua condizione. Prima e dopo il parto. Cattivo, cattivissimo esempio. Ma di cosa vuole andare fiera?
Primo, il riposo è obbligatorio e quindi non rispetta un legge dello Stato che rappresenta. Secondo, non aiuta a far comprendere, a chi deve comprendere e dando pure eco, il diritto di cui si trova ad essere portatrice. Sarebbe proprio una bella opera da ministro, un ottimo servizio al Paese se decidesse di rimanere ad accudire suo figlio piuttosto che delegare ad altri. Ma, ripeto, qui siamo nel paese del rovescio. Suo figlio non capirà, domani, l’esigenza di chi gli chiederà di assentarsi dal lavoro per una nascita. Ai miei figli, spero, saranno utilmente serviti questi momenti strappati ad una società che tradisce quella fiducia che Dio rinnova all’uomo ogni volta che nasce un bambino.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: