“Maestra, ma qui Dio non mi sembra felice.”
Ovvero come ti boccio gli affreschi di Michelangelo in meno di due secondi netti.
La lezione è una di quelle che hai preparato con la massima cura. Una di quelle che pregusti con il sorriso a fior di labbra, sognando ad occhi aperti la reazione entusiasta dei tuoi piccoli alunni. Invece no, la meraviglia nei loro sguardi è diversa da quella che ti saresti aspettata, e se da un lato ti sembra che ti abbiano appena rovesciato addosso una secchiata d’acqua gelata, dall’altro non puoi lasciarti sfuggire l’occasione di indagare un po’ più a fondo su uno stupore che non vede l’ora di esprimersi. E di stupirti a sua volta.
Il “qui” è la Cappella Sistina, appena approfondita virtualmente attraverso il grande schermo della lavagna multimediale. La maestosità del Dio dipinto da Michelangelo ha appena suscitato non solo tanta curiosità, ma soprattutto una buona dose di perplessità: il passaggio da serio a serioso è più veloce di un batter di ciglia e vale sia per i piccoli che per gli adulti. Eppure la questione pare di vitale importanza. Lo noto dal silenzio che è improvvisamente calato e che chiede d’essere riempito con un punto di partenza su cui riflettere. Raccolgo la sfida e la rispedisco al mittente: che tocchi a loro disegnare la propria personale versione del Dio creatore.
Tra una veste fatta di nubi ed un paio d’ali luminose, tra una spremuta di nuvole per creare la pioggia ed una tavolozza di colori per dipingere gli animali, tra una barba argentea ed un’aureola dorata, a fine lezione le pagine dei quaderni traboccano di cuori di tutte le dimensioni e colori e di sorrisi così smaglianti da far invidia ad ogni pubblicità di cure dentali.
Il punto critico stava tutto lì. Nella dimostrazione dell’amore. E nella manifestazione della felicità.
Entrambi, felicità ed amore, nell’immaginario dei bambini non possono accontentarsi di rimanere sottintesi, non detti, quasi ovvi, ma hanno bisogno di trovare una valvola di sfogo, un modo per farsi notare, per spuntare in primo piano e reclamare la parte principale.
Teologia spicciola, quella dei piccoli, che non deve necessariamente passare ore tra le sudate carte di illustri sapienti per elevarsi, né inabissarsi nei meandri delle antiche lingue bibliche, ma che nella sua sorprendente semplicità sa puntare lo sguardo dritto al cuore della questione.
Ci tratteniamo spesso dal manifestare il nostro affetto, o il nostro stato d’animo sereno, mentre magari non perdiamo occasione per esternare disappunto, quando non addirittura rabbia. Facciamo volentieri la figura della pentola a pressione con i moti dell’animo più negativi ed invece per quelli positivi impostiamo le nostre reazioni in modalità silenziosa.
La Misericordia, proprio come i bambini, reclama invece l’atteggiamento contrario.
“Amatevi gli uni gli altri” – “Ama il tuo prossimo” – “Amate i vostri nemici” sono atteggiamenti di un amore che non si accontenta di rimanere lì in un angolino, contenuto e quieto, quasi simile ad acqua stagnante, ma che invece s’agita e rompe gli argini, trabocca come acqua viva che non vede l’ora di riversarsi da ogni parte, di spandersi a macchia d’olio. Un amore che non si vergogna di mostrarsi nella sua totale esuberanza – “in cielo si fa più festa per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.” (Luca 15,7) – perché vive della gioia altrui, la nostra felicità è anche la sua.
Sembra facile, invece tra gli inviti del Maestro di Nazareth è uno dei più complicati, perché non richiede specifici atti esteriori, ma un atteggiamento interiore che si riflette su quello che facciamo. Pretende un cambiamento che parte dalle radici, per poi irradiarsi su tutto il resto.
Più che un “fare o non fare”, l’amore è affine al verbo essere.