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Poco tempo fa, ascoltavo un’amica. Mi raccontava gli ultimi mesi vissuti e di come la bomba che le era scoppiata dentro al cuore l’avesse impaurita, immobilizzata a tal punto da non riuscire più a scorgere vie d’uscita attorno a sé. Quel vaso che aveva scoperchiato aveva fatto uscire lati di lei sopiti, tenuti nascosti, e così tremendamente inguardabili ai suoi occhi. Il dolore fa mettere in standby la propria vita( chi per giorni, chi per settimane, chi per mesi, chi per anni). Da quando quel volto mostruoso, secondo il suo sguardo, si è manifestato, per non vederlo e per non voler più soffrire, alla vista di tanto squallore ingestibile razionalmente, lei ha rinchiuso tutto in un cassetto. Al buio. Nelle profondità. Ha silenziato ogni rimando pur di non pensarlo nemmeno. Sì, perché, quando qualcosa ci esplode tra le mani, il trauma che provoca o diventa trampolino di lancio per un cambio radicale o può metterci al tappeto, soprattutto se ci ritroviamo soli e disarmati al suo cospetto. Non sempre per mancanza di volontà o per superficialità; spesso, perché la montagna da affrontare ci sembra così irta, impervia, invalicabile che le giriamo le spalle. Crediamo che quei 180 gradi di cecità ci risolvano il problema, lo eliminino e che, come per magia, al nostro nuovo piroettare sia scomparso. No! Il dolore, la ferita rimane lì, come un fedele cane attende il proprio padrone. Ci vuole coraggio per prenderlo per le corna, per entrarci, viverlo, capirlo, scomporlo. E anche dopo tutta questa ordinata analisi, c’è bisogno di abbracciarlo e amarlo. È parte di noi, noi siamo anche questo. Non va sfamato ma accolto, ascoltato, educato, molte volte sanato. Non sempre operazione umana, risulta necessario un intervento divino per sciogliere nodi troppo intricati per apparati cardiaci fragili quali siamo. L’emorroissa lo accantonò per ben 12 anni, fino a che trovò il coraggio di toccare il lembo di Quel mantello. “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita” (Mc 5, 25 -34).

Comincio a capire, allora, questo sentimento avverso che i romani provano per l’ Altare della patria o, per gli addetti ai lavori, Vittoriano. Da poco son stata a Roma e lo contemplavo, ne ero affascinata, ammaliata, una bambina a bocca aperta per tanta bellezza e imponenza. È uno dei miei monumenti preferiti. Eppure, per un romano, è il segno dello sfregio, un monumento rifiutato, addirittura sbeffeggiato. Viene chiamato “la macchina da scrivere” per forma e bruttezza, perché pare non c’entri nulla con la bellezza che lo circonda, che non sia in armonia col resto della città e che, per costruirlo, abbiano spazzato via altri segni storici antichi. I cittadini della capitale, allora, ci salgono sopra per non vederlo.
Uomini. Saliamo sopra a ciò che non ci piace, solo per non vedere. Una forma di autodifesa. Nessun giudizio. E ripenso a tutto quel dolore, così ingestibile, della mia amica, che, per mesi, ha accantonato; ci è salita sopra. “Il dolore mentale è meno drammatico del dolore fisico, ma è più comune e anche più difficile da sopportare. Il tentativo di nascondere i frequenti dolori mentali ne aumenta il peso: è più facile dire “Il mio dente fa male” che dire “Il mio cuore è spezzato”. (C.S. Lewis).
Sarebbe troppo facile dire “basta chiedere aiuto” o dare risposte preconfezionate da perfetti cristiani: non sempre, la realtà interiore che viviamo è così lineare o immediatamente decodificabile. Non sempre, il cuore é pronto a “vedere”, accogliere e lasciarsi aiutare o guarire. A volte, ha bisogno di tempo per maturare. La speranza che mi abita dentro, e che spero di essere riuscita a comunicare anche a quest’amica, però, è che, nonostante quella donna, sanguinante, fosse “tremante e impaurita”, Dio ha pazienza: non smette di attenderci e non vede l’ora che cerchiamo in Lui un “tocco” che salva. “Dio sussurra a noi nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze, ma grida nei nostri dolori. È il suo megafono per svegliare un mondo sordo.” (C.S. Lewis)

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