sorgato

Appena il tempo di uscire dalla penna dell’evangelista e si ammantò di una bellezza gagliarda: niente potè nulla, nei secoli, contro di lei. E’ l’episodio che narra di Maria di Magdala (Gv 20), una degli stecchini-di-legno sui quali poggia l’ambiziosa storia del Nazareno. Il Maestro l’hanno crocifisso giorni addietro: l’hanno poi deposto in un sepolcro bellissimo, donatogli da un amico d’Arimatea. L’indomani – è ancora buio pesto, il tempo delle donne – il suo cuore la ributta in piedi: si reca al sepolcro col pensiero che almeno lì troverà un corpo sul quale pregare. Un cadavere è meglio di niente. Giunta a destinazione, non trova più nemmeno il corpo, persino il cadavere hanno fatto scomparire: “il danno oltre la beffa”, avrà bisbigliato nel suo cuore. E’ intontita, a metà strada tra la speranza che non molla e la fede che non vuol cedere alla disperazione, tanto da supporre che si trattasse d’amore bambino. Due uomini la pizzicano ad asciugarsi le lacrime: «Donna, perchè piangi?» Lei non si vergogna di confidare loro il suo dramma: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Al raddoppio della domanda, accelera il tempo del recupero: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». Farà tutto lei, lo giura: forse è ricca e se lo comprerà, forse ha le spalle grosse e se lo andrà a prendere da sola, forse è madre e se lo porterà in salvo come fosse un bambino caduto dal letto a notte fonda. Le basta sapere dov’è andato a finire quel corpo che tanto ha amato, che tanto l’ha amata. E’ solo un corpo forato di chiodi. Le basterebbe: per mettere la parola fine, per mettere la parola inizio.
Isabella Noventa è morta: questo è quello che sanno tutti. Quello che pochi sanno è dove quel corpo sia stato posto, forse gettato come si getta una cosa andata fuori-uso. Lo sanno in pochi, tra questi Freddy Sorgato. Che, però, fa il bambino capriccioso, seppur composto (dicono) dietro il ferro della galera: “Non vi posso aiutare”. In fin dei conti – penserà – che gliene importa questa gente di un cadavere? Per l’indiziato, invece, il mancato ritrovamento giova assai nel saziare la menzogna. C’è chi, invece, per quel cadavere sta versando rate doppie alla disperazione: la mamma, il fratello, chi l’ha amata. Far ritrovare il corpo non restituirebbe loro una storia, tanto meno cancellerebbe l’infamia del gesto compiuto. Aiuterebbe, però, a rimettere la serenità in chi, piangendo, la sta dannatamente perdendo. Varrebbe l’occasione di un funerale, di una tomba alla quale recarsi domattina a deporre un fiore, una confidenza: «Non si tratta di sistemare un corpo nella terra, ma di raccogliere senza perdere nulla, come da un’urna che si è rotta, il patrimonio del quale l’uomo era stato il depositario» (A. de Saint-Exupéry). Poco più di niente, oppure il tutto che si va mendicando.
Le sbarre di cemento, certi giorni, più che di prigionia sanno di comodità: sono i giorni in cui ci si sveglia e si decide di giocare al “gioco dell’oca”. Magari anche a nascondino, costringendo gli altri alla pazzia. Non basta lasciare che i giorni scorrano per dire d’aver fatto la galera: occorre che quei giorni s’accetti di riempirli di un senso, altrimenti diverranno tempo perso, sprecato, gettato. Le sorelle di Pietro Maso – “Devo finire il lavoro iniziato venticinque anni fa”, è la frase che gli hanno intercettato in questi giorni – ne sanno qualcosa: eppure s’è fatto oltre due decadi di galera. Per Maria, quella dei Vangeli, il rompicapo si tramutò in stupore: scoprì d’aver di fronte Colui che cercava, era Risorto. Per la mamma d’Isabella, questi giorni, basterebbe assai meno: un corpo, anche putrefatto. Mica passione per il lugubre: è che “bisognerebbe essere mamme per capire certe cose”. Anche il contrario: occorrerebbe essere uomini davvero per capire che, in certi attimi, un cadavere sul quale piangere è una memoria che rasserena.

(da Il Mattino di Padova, 6 marzo 2016)

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