Adesso rimarrà un nome scritto sulla lapide e un mazzo di fiori come segno di un passaggio, nostalgia di colori che non potranno più sbizzarrirsi a dire la vita con fantasia. La morte di un ragazzo tiene sempre lo strazio dei giorni tristi in cui tutto sembra aver perso l’armonia, il senso e la metafisica certezza d’essere parte di un universo meraviglioso. Le domande a posteriori non servono. O meglio: servono se non altro per sopravvivere. E per lasciarci in dote spirituale, a pochi giorni dal Natale, il monito che la giovinezza è simile ad un cristallo: il suo valore è direttamente proporzionale alla fragilità che reca nel mezzo del suo luccichio.
Il Veneto è una repubblica fondata sul lavoro. Ancora infanti e con il biberon in bocca s’apprende l’eterna lotta tra il fare e l’essere: il lavoro stanca il fisico e la mente ma ben presto ci s’accorge che il senso d’inutilità spegne l’ardire e uccide la speranza. Già Voltaire leggeva nella noia, nel vizio e nel bisogno i tre grandi mali che se ne stanno seduti sulla soglia dell’avvenire. Eppure l’uomo non può mai essere ritenuto il problema ma semmai la soluzione possibile del problema. Svegliarsi la mattina e scoprirsi inutili, inadatti, infelici: ecco la vera sfortuna di noi ragazzi. Scoprire e dover ammettere a se stessi che non c’è posto per noi, per i nostri sogni, per la nostra voglia di migliorare un po’ di più questo mondo. Non basta il pianto prostrato sulla tomba per cancellare l’angoscia di un grido che non s’è saputo ascoltare. L’economia si regge sul valore, sul plusvalore, sul prodotto interno lordo. Forse un giorno scopriremo che il PIL economico di una società arriva subito dopo il PIL della felicità. Perché un cuore triste non riesce a gestire nessun capitale. Riscoprire tale convinzione significa ritrovare la necessità dell’anima nelle cose, di rieducarci a vecchi alfabeti mandati in soffitta troppo presto, di allargare il pensiero immaginando un modo diverso d’esistere. E parlare di pensiero significa pronunciarsi a favore dell’agostiniana “fede nelle cose che non si vedono”.
Un suicidio è un regalo di Natale difficile da apprezzare, fors’anche passibile d’essere rispedito al Mittente con ricevuta di ritorno. Eppure dal suicidio di un giovane si può anche ripartire, per chi crede che la vita rinasce e s’alimenta sulla cenere delle sconfitte. E magari ritornare a parlare di Vita Eterna. Perché qualora all’uomo giovine manchi un ideale altissimo con il quale confrontarsi tutto diventa più difficile. Poi puoi anche non crederci ma nel frattempo lotti, t’ostini a metterti contro, ti senti vivo nella battaglia. Tutt’altra cosa dal confrontarsi col nulla, lo stordimento e gli incassi della chimica e del virtuale. Anche gli stilisti necessitano delle grandi sfilate di moda, pur consci che poi sulla strada quegli eccessi non sono proponibili. Ma la provocazione dell’eccesso sarà servita loro a risvegliare un’intuizione, abbozzare una figura, esperimentare l’esigenza della Bellezza. Gli antichi, riflettendo sulla brevità della giovinezza, la paragonavano alla durata di un sogno: ed è proprio nel sogno che a volte si riesce ad assaporare un anticipo di quel che sarà.
Nella settimana che c’addentra nel Natale un tocco di campana severo ci ricorda la delicatezza dei nostri giovani. Tra radicchio di Treviso, porchetta d’Ariccia e coiffeur d’alta moda probabilmente qualcuno sposterà la domanda a data da stabilirsi. Altri s’interrogheranno, perché in qualche modo dobbiamo pure sopravvivere. Qualcuno piangerà un figlio morto. E forse s’accorgerà che nel mezzo di una giovinezza scanzonata c’era una domanda che se ne stava triste: per non essere riuscita ad accendere nessun’altra domanda.
Alla veneranda età di diciannove anni.