Il cimitero vestito a festa è l’immagine che più di tutte si associa al mese di novembre: la “commemorazione dei defunti” è un comandamento del cuore, del cuore di tutti. “Commemorare” è un verbo di raccordo: richiama la memoria, la memoria è collegata al ricordo, il ricordo è far ritornare qualcuno/qualcosa nella casa del cuore. La memoria, poi, s’accende in automatico il giorno stesso di una partenza, di una mancanza. La memoria più grande brilla con la morte: «La vita è una grande sorpresa – annota V. Nabokov -. Non vedo perchè la morte non potrebbe esserne una anche più grande». Pregando tra le tombe dei miei cari in cimitero, mi impressiona il grande rispetto della morte anche da parte di chi non ha avuto rispetto per la vita: i crisantemi, le frasi scritte, la cura dei dettagli sono esperienze umane che svelano una storia che è ancora in corso con i defunti. Il giorno della morte – per questo credo nella risurrezione – la liturgia ci consola a modo suo, che è sempre un modo signorile: «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata». Quando un uomo muore, non viene strappata nessuna pagina dal libro della sua vita: semplicemente la si traduce in una lingua nuova.
“E’ assai limitante sapere di dover un giorno morire” ripete più di qualcuno. Il fatto serio, anche serioso, della morte è tutto qui: ci ricorda il nostro limite, che non siamo eterni quaggiù, che siam tutti di passaggio. Il limite, poi, è da sempre un incoraggiamento al confronto, alla sfida, al superamento. E’ il limite che ci dà un valore, che racconta come viviamo: pensando alla morte, che è uno dei limiti che più di altri ci sta sotto gli occhi quotidianamente, ricordiamo che certe cose non si possono rimandare a domani, che certi istanti non ritorneranno più, che il nostro presente è l’affare più serio da svolgere. La vita ci insegna a fare l’analisi grammaticale: sostantivi, aggettivi, pronomi e preposizioni. La morte, ch’è l’altra faccia della vita, costringe all’analisi logica: i complementi, la visione d’insieme di una frase, il rapporto tra soggetto-verbo complemento. La morte, insomma, è la sintesi della vita: piaccia, non piaccia, dovremo tutti farci i conti con lei. Più che un dramma, dunque, è la posta in gioco stabilita per poterci giocare la vita.
Il fatto, poi, di non poterci portare via nulla – “Non ho mai visto un’impresa di traslochi dietro al carro funebre” disse un giorno, ironico ma non troppo, papa Francesco – costringe l’uomo all’essenziale: badare al senso delle cose più che alle cose. Il difficile, quaggiù, è scoprire il significato nascosto dentro le cose di una vita. Il senso stesso del mio esistere, visto che dal momento in cui è nata in me la vita, anche la morte ha iniziato il suo cammino verso di me: senza fretta. La morte è la mia clessidra: guardandola intuisco che, per quanta sabbia ci sia, è sempre troppo poca rispetto ai miei desideri. Non potendola truccare, però, mi mette in allerta: “Vietato addormentarsi!” continua a ripetermi quando la guardo.
Morire, di per sé, non è nulla: è solo aver finito di nascere. L’angoscia è di chi avverte di non esser mai nato: quaggiù c’è differenza tra il vivere e l’esistere. L’identica differenza che ci sarà tra perire (gli animali periscono) e morire, che è solo dell’uomo-pensante: scoprire perchè si è vissuto. Non tutti i limiti vengono per nuocere: più che un cartello di stop, la morte è una vecchia pietra miliare.
(da Il Mattino di Padova, 3 novembre 2019)