AA 1224 Don Knebel

Una visione apocalittica che, a prima vista, sembra – addirittura – lasciare tutti senza scampo: così ci accoglie la prima lettura della prima domenica di Avvento. Immagini vivide, ma tragiche: di distruzione, di morte, potremmo dire anche: di terrore.
«La terra barcollerà come un ubriaco, vacillerà come una tenda; peserà su di essa la sua iniquità, cadrà e non si rialzerà»: tutto parla di grandi sconvolgimenti. Né saranno risparmiati «l’esercito di lassù» e i «re della terra»: nulla di ciò che può dichiararsi potente, manterrà tale caratteristica, al cospetto di Dio, tant’è vero che persino la luna «arrossirà» e il sole «impallidirà».
Che significa? Ci viene forse da pensare. Ci viene, forse, da domandarci se sia una sorta di sventurata profezia, di cui siamo chiamati a decifrare i tempi – che potrebbero essere questi, oppure no –.

«Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1Cor 15, 23-26)

È necessario: bisogna ristabilire le priorità. Il Re è uno solo, mentre l’illusione che governa il mondo è la successione di tanti piccoli reucci, ognuno convinto di essere “re del proprio piccolo regno”. A partire da noi stessi e dalla nostra illusione di totale autonomia (della cui inesattezza ci accorgiamo quasi quotidianamente: è la cocente delusione che viene al nostro ego, quando si scopre, inevitabilmente sottoposto ad un enorme numero di eventualità, del tutto indipendenti dal nostro controllo e dalla nostra volontà).
Tutto nasce dall’osservazione, dalla capacità di soffermarsi. In questo caso, sulla bellezza dell’edificio del tempio. Altre volte, si è discusso su chi lo frequenti e sulla liceità dei loro atti (i mercanti, i ricchi, la vedova). In questo caso, lo sguardo si sofferma sull’esterno, sull’impressione di bellezza che lascia in chi lo guardi la disposizione delle pietre, in un’architettura ordinata, imponente, maestosa.

Il primo appunto è di una crudezza sbalorditiva: tutta questa meraviglia non durerà a lungo. Una nera profezia, che si deve alla divinità della persona di Cristo. Sicuramente, da ebreo, questa constatazione non sgorga dalle sue labbra senza dolore.
Doveva avere senz’altro creato un imbarazzante sconcerto: per questo la scena, che, inizialmente, pare prendere le mosse nei pressi del tempio, successivamente, sembra spostarsi in altro luogo, non molto distante, ma quel tanto che basti a sottolineare un silenzio spesso come una coltre, che ha ricoperto inesorabilmente i discepoli, rabbuiandoli nella tristezza. Nei versetti seguenti, ci troviamo infatti sul Monte degli Ulivi.
Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo prendono in disparte, lo interrogano: vogliono capire. Se non fosse che, agli occhi di Dio, è come se fossimo tutti “figli unici”, verrebbe quasi da dire: “quelli che contano”. Quelli delle grandi occasioni. Comunque, non è di sicuro un caso, se l’evangelista sottolinea la presenza di questi quattro. Denota un messaggio importante, ma anche confidenziale: uno di quelli da affidare solo a chi ne sappia portare il peso; un messaggio da consegnare a persone di fiducia: perché sia meditato, custodito e tramandato, con fedeltà.
Il discorso che segue è di una serietà disarmante: di quella verità nuda che è richiesta dall’amicizia autentica, che, però, non si lascia mancare la tenerezza dell’attenzione, della raccomandazione, piuttosto sferzante che assente (nel testo, sono infatti, presenti una sfilza di “badate, fate attenzione”: come la mamma all’adolescente che sta per uscire di casa, non manca di ricordare tutte le raccomandazioni del caso).
Guerre, pestilenze, carestie, sconvolgimenti: tutto ciò «deve avvenire, ma non è ancora la fine»: dice il Vangelo, quasi suggerendo di usare prudenza, prima di appioppare, forzatamente, dimensione apocalittica a fatti ed eventi che, in realtà, si inseriscono, invece, nel normale corso degli eventi e non rappresentano un preludio apocalittico.
C’è il male. Il mistero del male. Anche quello più profondo: quello che ci annichilisce, ci sconvolge, ci turba e ci lascia senza fiato, perché non riusciamo a trovare parole per spiegarlo. C’è stato e ci sarà sempre. Non è Dio l’origine del male, tuttavia è necessario. Come nella parabola della zizzania e del grano (Mt 13, 24-30), ci illuderemo, volendolo estirpare “senza pietà”: troppo alto è il rischio di strappare, con il male, anche il bene più fragile.

Nonostante le tempeste della vita, non dobbiamo scordarci il fine verso cui tendere il nostro sguardo, che è proprio quello che ci ricorda l’Apostolo: «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15, 28). Perché solo in uno sguardo che abbracci oltre la contingenza, possiamo respirare quell’aria limpida che nutra la nostra essenza più profonda e più vera.  

Rif: letture festive ambrosiane, nella I domenica di Avvento, ciclo B (Is 24, 16b – 23; 1Cor 15, 22 – 28; Mc 13, 1 – 27)


Fonti:
Angelo Casati, Il racconto e la strada
Parole nuove, don Raffaello Ciccone

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