Atto d’amore che comunica amore e, nel comunicarsi, unisce un uomo e una donna. Atto unitivo che lega anima e corpo un uomo e una donna e genera la vita. Solo questo dovrebbe indurre a rispetto e delicatezza nei confronti dell’atto coniugale. Un atto che dà la vita, che ne genera una nuova, specchio dell’amore dei genitori: è qualcosa di incalcolabilmente bello, che dovrebbe provocare sentimenti di gioiosa meraviglia e grato stupore.
La cruda attualità, purtroppo, ci sottolinea però tutt’altri aspetti di ciò, molto meno idilliaci.
Quando mancano rispetto e tenerezza, pur restando, in sé e per sé identico, l’atto assume tutt’altri significati. L’atto stesso, infatti non cambia, non assume nemmeno una violenza fisica particolare, il più delle volte (spesso psicologica sì, però!). infatti, non è possibile soprassedere alla necessità del rispetto e della considerazione della persona che abita il corpo oggetto (e soggetto!) d’amore. In mancanza di quello, la situazione si fa ben presto insostenibile, facendo assomigliare la prestazione richiesta ad un atto di prigionia. Tutto molto lontano dal significa vero e proprio (ed auspicabile) di un rapporto sessuale tra due persone pienamente mature che si amano.
Basti pensare, ad esempio, alla costanza con cui la prostituzione e lo sfruttamento sessuale si accompagnino al consumo di droghe e stupefacenti. Come avviene, del resto, in guerra. E in tutti quei contesti che si rivelano degradanti per l’essere umano. Si cerca un “aiuto” esterno per stare in un posto, in un luogo e in una situazione dalla quale si vorrebbe scappare a gambe levate. Perché una donna, quando viene sfruttata, lo avverte. Lo avverte anche un bambino di pochi anni.
Chiunque percepisce chiaramente quando si trova protagonista-vittima di una cosa sbagliata, che non ne aiuta la crescita, né ne facilita l’arricchimento personale, sociale e morale. Anche se – alle volte – può aumentarne l’arricchimento economico. Ma a quale prezzo?
Stiamo mercificando tutto, persino ciò che dovrebbe avere un valore inestimabile e andrebbe coltivato come il tesoro più prezioso. In nome della mistificazione della libertà, stiamo vendendo i nostri figli e le nostre figlie ai migliori offerenti, macchiando per sempre le loro esistenze. Perché se un rapporto sessuale vale un ricarica telefonica, come possiamo iluderci che dei giovani uomini e donne potranno mai provare il gusto del brivido di scommettere una vita intera su una persona sola, per tutta la vita?
Abbiamo parlato tanto, forse troppo, delle conquiste delle donne in fatto di diritti civili, sociali, economici. Forse però stiamo perdendo (o abbiamo già perso?) la bussola. Giuste le tante richieste di maggiori diritti in campo di educazione, lavoro, politica che hanno consentito a tante donne di poter studiare, lavorare, esprimere le proprie opinioni.
Tuttavia, dietro alcune richieste c’è un pericolo sempre in agguato, che si nasconde anche quando tali richieste sembrano le più innocenti del mondo.
L’esempio degli esempi: la cultura “della strada” vuole che se un uomo ha tante donne, è un uomo dal fascino tenebroso, ma suggestivo e interessante. Se lo stesso comportamento è assunto da una donna, essa viene invece criticata. Un certo femminismo ha voluto combattere quest’ingiustizia nel giudizio morale nei riguardi di una sola delle due parti in causa, nel peggiore dei modi, cioè sostenendo che anche le donne, come gli uomini, dovessero avere il diritto di cambiare uomo a piacimento, con qualsiasi frequenza e per qualsiasi motivazione.
Nascondendosi dietro al motto “il corpo è mio e lo gestisco io” si sono potuti perpetrare ingiustizie e oscenità, mascherati dietro l’indipendenza e l’autonomia femminile, maschera mai abbastanza abile a nascondere la frustrazione ed il disagio di donne costrette ad annientare sé, per dirsi libere soltanto a parole. Perché quando la merce messa in vendita e da cui dipendono i guadagni e la serenità propria e altrui è il proprio corpo, si sta attuando una pericolosissima scissione tra se stesse e ciò che ci appartiene, ma anche ci rappresenta: per questo, a livello non solo fisico ma – ancor più – esistenziale ,vivere una vita di questo tipo comporta una degenerazione e un disagio interiore a dir poco insostenibili. È attentare a se stesse.
Mettendo tra parentesi il fatto che in vari casi abbiamo di fronte delle minorenni (che però è concetto ben diverso dall’essere stupide!), resta triste il fatto che si possa accondiscendere liberamente a mettere in vendita se stessi. Sono due parole che collidono inevitabilmente: come puoi ritenerti libera, vendendoti al miglior offerente, dandoti a chi ti offre di più? Dare un prezzo al tuo corpo porta due conseguenze atroci: la prima è il distacco di esso da te stessa, la seconda rappresenta l’incapacità di vederlo come un valore. Se, infatti, gli si può dare un prezzo, che oscillerà – inevitabilmente! – in base alla prestazione, ma anche alla prestanza, che dipenderà e cambierà inevitabilmente nel corso del tempo. Deprezzandosi!
È possibile, per una donna, accettare questo? Accettare di perdere il proprio valore nel tempo come un ferrovecchio, essendosi ridotta a pensarsi solo ed esclusivamente come un corpo? La risposta è ovviamente no! Una donna non può accettarlo, o almeno non senza mancarsi di rispetto! E infatti una donna se ne accorge quando si manca di rispetto e quando è mancata di rispetto. Arriva sempre il punto di rottura in cui si rende conto che non vale la pena perdere quello che ha perso, pur guadagnando tutto quello che ha guadagnato (soldi, ricchezza, bei vestiti…). Spesso, però è troppo tardi, il cerchio, intorno a lei si stringe sempre di più e le pare di non avere vie d’uscita: incappa nella rassegnazione, che molte volte è anticamera dell’alienazione, a cui si cerca di porre rimedio, cercando rifugio nell’estraniazione da sé, tramite l’utilizzo di eccitanti o droghe.
L’ennesima illusione che si somma alle altre, nel (vano) tentativo di rendere digeribile l’amara realtà da cui sembra ormai assolutamente impossibile uscirne.
Il punto cardine è che, come spesso accade, ciò che dà il via a questo piano inclinato verso l’abisso è l’assenso che diamo a un pensiero: non pensiamo più di essere (anche) un corpo, ma di avere un corpo. Se noi abbiamo un corpo, se lo possediamo, allora possiamo farne ciò che desideriamo, come di qualunque altro oggetto: ne possiamo disporre come vogliamo, a nostro piacimento, servircene in modo strumentale. Ci è concesso e non c’è nulla di male. È la logica conseguenza del possesso.
Ma ritenersi possessori di un corpo, come se fosse una borsa, uno zaino o un vestito è evidente che è riduttivo. Dà il permesso a chiunque di mancarci di rispetto, di trattarci come si tratta un oggetto: “l’ho pagato e lo uso come voglio!”… questo è il discorso che prende piede, giustificato proprio dall’auto-immiserimento (inteso proprio come una concezione estremamente parziale del proprio sé).
Se invece c’è piena consapevolezza della propria unità di corpo, anima, desideri e dignità e del proprio corpo come parte dell’espressione di sé è possibile instaurare un pensiero di rispetto e valorizzazione del proprio corpo e della propria persona.
Si noti infatti come, quando si parla di prostituzione, anche in caso di consenso delle interessate, si arriva inevitabilmente a qualche forma di abuso: scindere l’atto sessuale da ciò che è, vale a dire parte integrante di quel linguaggio di gesti d’amore che è ricco di mille altre sfaccettature ed attenzioni nei confronti dell’amato, porta a far scivolare quell’atto, in sé nobile e fonte di comunicazione e di sentimento, verso lo sfruttamento dell’altra persona per i propri interessi.
E vorrei precisare un dettaglio. Come ben illustra in vari punti Karol Wojtyla, nel suo “Amore e responsabilità”, a questo rischio si affacciano in realtà anche gli sposi stessi. Non basta infatti la semplice unione “istituzionalizzata” quale garanzia di una relazione che sia veramente atto d’amore: anche il sacramento deve essere propriamente incarnato, perché possa davvero vivere la santità che gli è propria. L’apertura all’altro, ai suoi desideri e ai suoi bisogni dovrebbe manifestarsi a maggior ragione nell’atto coniugale per eccellenza che non dovrebbe mai essere un atto di prevaricazione, ma sempre e comunque un atto d’amore, rispettoso delle reciproche diversità: un dono d’amore reciproco di sé all’altro, con tenerezza, nella consapevolezza che solo se il dono è totale non si incontrano solo due corpi ma due anime incarnate nel desiderio di amarsi reciprocamente, nel tentativo, magari a volte goffo – ma sincero! – di amare come ama Dio.