Di fronte a gravi episodi di cronaca, che coinvolgono il nucleo stesso della società civile, quale è la famiglia, la prima istintiva reazione è spesso di stupore. Com’è possibile? “Lo conoscevo, salutava sempre” commentano i vicini, interdetti ed esterrefatti. Qualcuno, incapace di tacere, arriva a generalizzare con commenti in cui è messa in discussione l’esistenza stessa della famiglia, quando non della possibilità di relazioni autentiche tra esseri umani. Addirittura, si arriva ad argomentare, nella migliore delle ipotesi, che ogni umano sentimento sia permeato da ricerca di tornaconto e propria utilità.
La realtà profonda e vera è che tendiamo a rimuovere l’ipotesi che il male ed il dolore possano toccarci da vicino. Soprattutto, quando si tratta di delinquenza, oppure di droga. Guardando a ciò che abbiamo cercato di fare, in assoluta buona fede, tendiamo ad autoassolverci (a volte frettolosamente) dalle personali responsabilità che ciascuno di noi può avere e, soprattutto, abbiamo la tendenza a minimizzare quello che pure percepiamo. Preferiamo allontanare da noi la verità, piuttosto che consentirle di metterci in discussione nel profondo. Ci è – infatti – più comodo pensare che siamo nel giusto e sono gli altri ad allarmarsi inutilmente. Quando, finalmente, decidiamo di prendere in mano la situazione, talvolta, è troppo tardi. Il danno è ormai fatto. Non che non sia più possibile porvi rimedio, ma – certamente – se avessimo accettato di metterci in discussione quando c’erano i segni di un malessere latente, ma già espresso, si sarebbe potuti intervenire prima, e meglio.
A dirlo è proprio chi ci è già passato. Come chi tuttora vive nella Comunità Cenacolo (denominata “Campo della Vita”) di Međugorje, Bosnia – Erzegovina. Si tratta di una realtà fondata da madre Elvira a Saluzzo, in provincia di Cuneo, e successivamente esportata in tutto il mondo. Marco, ad esempio, inizia ad avvicinarsi al mondo della droga intorno ai 14 anni, inseguendo il desiderio di primeggiare, di essere voluto. Che, a ben pensarci, è ciò che muove tanti adolescenti verso cammini sbagliati.
Entra in comunità a 17 anni, spinto dalla volontà dei genitori che, pur di fermarne il declino, arresi alla propria impotenza, arrivano a chiamare la polizia. In questo, ricorda probabilmente l’episodio di cronaca del suicidio del ragazzo ligure, in cui tanti hanno contestato la condotta dei genitori: tuttavia, stavolta, l’epilogo sarà diverso, a riprova che la complessità dell’essere umano fa sì che non si possa limitarsi a seguire linee guida di comportamento generali ed univoche, aspettandosi risultati confrontabili e comparabili tra di loro. Ciascuno ha la propria storia, il proprio carattere, le proprie fragilità, il proprio orgoglio da superare, i propri mostri da abbattere.
Marco approfitta della maggiore età per sottrarsi alla comunità; poi, però, la voce di un’amica lo mette in guardia: perché vivere come un senza fissa dimora, a diciotto anni, rovinandosi l’esistenza con le proprie mani? A volte, quella voce che non abbiamo mai ascoltato, può alla fine fare breccia.
A 21 anni, Marco risiede ancora in comunità e, stando alle rigide regole che essa impone a tutti i ragazzi, sta compiendo il proprio percorso per riappropriarsi della propria vita. A chi vive nella comunità Cenacolo, non è consentito avere telefono, né soldi a disposizione, né lavorano (se non svolgendo i propri servizi all’interno della comunità); inoltre, pregano insieme e singolarmente e sono accompagnati, nel loro percorso, da alcuni educatori.
L’unica medicina da loro utilizzata è la preghiera, l’unica terapia è la fraternità.
In questo contesto, una delle prime operazioni che i ragazzi cercano di fare, oltre ad intraprendere (o riavvicinarsi) alla vita di preghiera, è quella di rileggere la propria vita: ciò che ne scaturisce è proprio questo. A fronte di una scelta personale, le cui responsabilità sono innegabili, infatti, c’è sempre un concorso di colpa familiare che, sulle prime, può sembrare banale. Non si parla, in genere, di negligenze gravi, di figli lasciati a sé stessi. Magari, però, a mancare è il tempo di qualità dedicato ai figli, una domanda più profonda di colloquio con loro, il coraggio di guardarli negli occhi e leggere in uno sguardo la ricerca di sé in percorsi pericolosi e sbagliati.
Gli adolescenti non sempre fanno scelte corrette. Talvolta, sono ostinati ed arroganti, ma nel loro cuore c’è, costantemente, in moto una ricerca di Bellezza e Verità.
Non vergogniamoci di affrontare un problema, né lasciamoci dominare dalla paura del giudizio altrui: non esistono luoghi perfetti, esiste però la volontà e la possibilità di cercare di guadagnare serenità e voglia di vivere, per noi e per chi ci sta intorno.
Per un approfondimento:
Comunità Cenacolo