Non è solo quello che mettiamo in bocca a creare la convivialità, ma anche quello che ne lasciamo uscire. Esiste anche la possibilità che una conversazione sulle nostre convinzioni generi più convivalità -pur in presenza di convinzioni diverse- di qualunque cibo in tavola.
Jonathan Safran Foer
C’era un invito a pranzo: quel sabato a casa di un capo dei farisei tutto era apparecchiato, per il cuore e per il palato. Di fatto il Maestro -definito mangione e beone- all’intimità dei tovagliati a quadretti e alle atmosfere languide dei cerimoniali farisaici, vi aderiva col piglio di chi c’aveva preso gusto a banchettare, tant’é che, a furia di condividere confidenze e stoviglie con pubblicani e peccatori, qualcuno si dichiarò scandalizzato. A tavola le parole scorrono più fluide e dirette; esse, mostrando la parte vera di ciascuno, diventano condimento per insaporire l’insipiditá del cuore. Stare a tavola -ancor oggi- è distendersi su un talamo di coesioni tra familiari, accordi tra potenti, effusioni tra innamorati che, tra profumi e aromi, sanciscono l’inizio o la fine di qualcosa, ne correggono il tiro o ne determinano il suo andamento. «Meditate bene su questo punto: le ore più belle della nostra vita sono tutte collegate, con un legame più o meno tangibile, ad un qualche ricordo della tavola» (Charles Monselet). Anche Cristo, prima di affrontare la sua passione, s’appassionò di cibi prelibati che avevano il volto dei peccatori e il retrogusto della miseria, per questo versò l’olio della consolazione e il vino della letizia sempre nel bel mezzo di festosi banchetti. Dagli esordi in quel di Cana, passando per casa di Levi e di Simone e sostando appartato in quella di Marta e Maria, la tavola fu il leit motiv delle sue rivelazioni piú intense e incomprensibili, fino all’ultimo della Sua ultima ora, -ch’era giá ora di Cena- e da Verbo, si fece Pane. Lì, al primo piano di una grande sala, concluse con l’esempio il discorso iniziato in parabole a casa del fariseo, approfittando della disputa sollevata dai figli di Zebedeo sui posti da occupare nel Regno dei Cieli: «Concedici di sedere nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (cfr. Mc 10, 37). Il primo posto é di chi cede il posto, solo chi si umilia sará esaltato. Per questo il suo capo-tavola furono lacrime da asciugare, peccati da perdonare, catene da spezzare, piedi da lavare. Poveri, ciechi, storpi, zoppi: il pranzo è servito. Spogliatosi di sé stesso, cinti i fianchi con un grembiule –come Colui che serve– si fece ultimo tra gli ultimi, purificando i cuori da ogni radice di superbia, da ogni slancio di alterigia, dalle tensioni esasperate della vanagloria e dell’ambizione. Da invitato si fece biglietto di invito, e, consegnandosi nelle mani dell’umanitá, lasciò in circolo un messaggio: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (cfr. Mt 11, 29). Mitezza ed umiltà: il giusto pasto al giusto posto, all’ultimo, in fondo alla tavola. «Vai all’ultimo posto, non per un segno di indegnità o di svalutazione di te, ma per segno d’amore e di creatività. Perché gesti così generano un capovolgimento, un’inversione di rotta nella nostra storia, aprono il sentiero per un tutt’altro modo di abitare la terra» (don Tonino Bello). Un segna-posto in fondo alla tavola non é umiliazione, tutt’altro!, é il posto “riservato” accanto a Cristo. Venuto per servire, Lo si trova ultimo tra gli ultimi – i poveri- che non avendo nulla, fanno dono di se stessi. Nelle loro storie é nascosto il segreto della nostra beatitudine, nella loro povertá l’immensa gratuitá di Dio. Da loro impariamo ad amare come Dio, con loro da ultimi diventeremo primi. La vita é un meraviglioso pranzo di nozze, il banchetto é già pronto. Il menù prevede grasse vivande, vini eccellenti e raffinati, cibi succulenti.
Buon appetito!