Mentre ieri sera, a Sorrento, mi consegnavano il Premio Speciale Biagio Agnes 2016 per il giornalismo, ho realizzato che è stata la pratica sportiva ad insegnarmi quale fosse il significato della parola “informazione”, dunque anche del fare informazione. In-formare è verbo che appartiene al casato dello sport: mettersi in forma, stare in forma, raggiungere il picco di forma. Dove “forma” non è tanto l’aspetto esteriore di un fisico quanto quell’armonia tra testa, corpo e cuore che fa di un semplice atleta il vincitore di una competizione. La scrittura, negli anni a seguire, mi ha dato l’occasione di sporgermi oltre lo sport: se nello sport ciò che conta è arrivare un attimo prima dell’avversario, nell’informazione – oltre alla tempistica del dare una notizia – giace l’avventura di spingersi un centimetro più “dentro” di altri nella riflessione. Fino a cogliere un frammento della sua verità più intima: è l’informazione che mantiene in-forma il pensiero di una città, di una collettività, il sapore di una libera riflessione.
Per qualcuno, come il sottoscritto, la scrittura è diventata nel tempo una sorta d’annunciazione: anche rivelazione, dunque rivoluzione. Scrivendo di altri, svelo me stesso al lettore, guadagnando una conoscenza più vera anche di me stesso: facendo i conti con ciò che accade, mi accorgo di essere anche il frutto di ciò che mi attraversa, delle notizie che mi interpellano, non solo di ciò che la scuola mi ha lasciato in dote. Da questo punto panoramico, il mio giornalismo non è un’informazione “di” carcere ma è un’informazione “dal” carcere: sono prospettive diametralmente opposte. Chi scrive “di” carcere rischia di comporre dei monologhi, dei soliloqui: il carcere diventa materia di riflessione. Chi scrive “dal” carcere fa del carcere – che, allargato, diventa la miseria umana – la postazione dalla quale scrutare la realtà quotidiana. Da dietro le sbarre e il cemento si può, dunque, discutere di economia, di statistica, di teologia, di arte culinaria: l’inedito della prospettiva arricchisce la riflessione, il leggere la storia dal punto di vista dei poveri non è come leggerla dal punto di vista dei potenti, dallo scantinato non è come dall’attico. Riconosco che annidano qui le radici del mio giornalismo, ancora più tentativo che conquista: nei sottofondi umidi della società, mi sono imbattuto in quell’umano che, spremuto, lascia fuoriuscire una freschezza assai ardita da trovare altrove.
Un premio, inutile nasconderlo, fa sempre piacere: a chi dispiace piacere? Per me, oltretutto, è un onore essere valutato, almeno una volta, dal peso delle parole più che dalla veemenza dello stile che mi appartiene. Questo mi è stato possibile perchè, in annate complicate, “Il Mattino di Padova” – nella persona di Omar Monestier e, poi, Antonio Ramenghi, Pierangela Fiorani, Paolo Possamai – mi ha aperto le porte facendomi sentire “a casa”, libero. E’ stata l’occasione di fare i conti con un mondo fino allora sconosciuto, di apprendere l’arte di leggere l’universale nel particolare di una notizia di quartiere, di lasciarmi ammaliare dai tentacoli di una città che ha fatto dello straniero il vessillo e la croce. Dove la guerra, quando s’accende, non si conduce con le bombe delle contraeree ma con le lame finissime dei fioretti. Anche le notizie sono lame: accettare il rischio di tagliarsi è procurarsi l’opportunità di uscirne diversi dopo quell’incontro. Come quando m’inoltro nelle parole dello scrittore Camon, penna capace di universale senza per questo mai svilire il particolare. Dalla terra al cielo.
Comporre un giornale è un lavoro artigiano: si entra in contatto con una notizia, ci si siede accanto, s’ascolta la sua voce. Poi le si presta la penna per farla diventare “buona-giornata”, senza per forza taroccarne la verità. Anche se nera, è sempre un’occasione per stare-in-forma. Per stare al passo.
(da Il Mattino di Padova, 26 giugno 2016)