peresecuzione

Era un delinquente dalle fattezze comuni; passò allo storia come colui che, da capoblocco dell’infermeria dei detenuti, fece l’iniezione mortale nel braccio di padre Kolbe. Pur delittuoso, a lui venne concesso d’assistere al guizzo di un’intuizione da batticuore: «Lei non ha capito nulla della vita. L’odio non serve a niente, solo l’amore crea». Detto così, sul ciglio di una morte tanto infame quanto celeste: il tempo e lo spazio delle verità più intime. Si videro costretti a sfinirlo quel piccolo brandello di santo, morto pitturando sulle labbra la più materna tra le preghiere cristiane: «Ave Maria». Morto ad Auschwitz: la terra dove Lucifero non fu capace di bandire del tutto l’eco dell’amore. A certe terre basta dell’acqua per divenire fertili. Ci sono altre terre, però, alle quali l’acqua non basta: in quegli spazi l’annaffiatoio lascia lo spazio ad una vita e l’acqua cede il posto al sangue. Terre annaffiate col sangue: sulle loro zolle nasceranno i frutti proibiti della santità e del martirio.
Stanotte è stata notte di veglia e di preghiera per i cristiani perseguitati. Non una notte qualsiasi, bensì la notte che prepara alla Pentecoste: la notte che per il popolo dei Vangeli passerà alla storia come quella della porta lasciata aperta. S’erano chiusi dentro i discepoli: per paura, per timore, per l’ansia di una rivalsa. Li beccò così lo Spirito Santo, come talpe appollaiate sotto terra. Decise d’intervenire e, con una scarica d’amore e di fantasia, li scaraventò dagli scranni ricordando loro il posto nel mondo: dentro la storia, seriamente dentro la ferialità, con le mani in pasta. Il Dio nascosto chiedeva d’essere ricordato come il Dio della provocante quotidianità: nel cenacolo si muore d’asfissia, sulle strade s’incontra la sorpresa. Il cenacolo è una sicurezza, la strada è un rischio: gli incidenti sono a tutte le ore del giorno. In un battibaleno lo Spirito mostrerà da che parte ama stare: meglio una chiesa incidentata che una chiesa soffocata d’asfissia. Francesco, il Papa, sottoscriverà a cuore aperto e a voce alta: con un’immane e inspiegabile solitudine attorno. Anche con Cristo fecero lo stesso.
Pregare per i cristiani perseguitati: quelli torturati, rapiti, squartati. In certe terre la fede è un rischio, una scelta, un ricordo: è esporsi alle intemperie delle granate, vedersi messi al pubblico ludibrio della derisione, rischiare in proprio l’appartenenza a Cristo. E’ fare i conti coi cecchini della morte. Chi ha ucciso don Peppino Diana gli ha sparato in sacrestia: fu il promemoria di chi, intrallazzato col Demonio, ha memoria da vendere. E una certezza da pubblicizzare: una chiesa che rimane in sacrestia non avrà nulla da temere. Si prega per i perseguitati, dunque, che è poi una preghiera per chi non è perseguitato: come quando a ragionare sulla fame sono i potenti della terra, a disquisire sulla povertà sono i ricchi del pianeta, ad intavolare discussioni sui massimi sistemi son sempre quelli che i sistemi li organizzano. Stavolta, però, è diverso: si prega perché s’avverte che quella persecuzione è una misura. E’ l’oro provato sul crogiolo, il grano che vien separato dalla pula. Si prega per loro, per accorgersi d’aver pregato per noi stessi: quella forza ci sorprende, quell’attaccamento a Cristo è una spina, quelle orazioni sotto un cielo bombardato sono rosari che scottano la pelle di chi la fede l’ha tradita.
Il gioco del bridge e del monopoli basta e avanza per riempire intere esistenze. Può anche darsi che per altre persone tutto ciò non basti: sembra non si siano ancora ripresi da una sorta di stupore per l’Uomo Crocifisso. Stanotte in tanti han pregato loro, non “per loro”: che c’invadano con un pizzico di quella follia d’amore. A chi non sta bene, nessuno obbliga a seguire Cristo.

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