Ammetto d’essere uno di quelli che, per mancata passione verso il pianeta calcio, manco sapeva esistesse un uomo di nome Davide Astori che, di mestiere, faceva il calciatore. Non conoscendolo non posso esserne certo, ma temo fosse felice d’essere riuscito nell’impresa che ammalia il mondo: quella di percepire la forza d’urto di una passione e, lavorandola, farla diventare un mestiere, il proprio mestiere. È forma di realizzazione che non teme raffronti. La nostra è una non-conoscenza condivisa: dai dati in mio possesso, manco lui sapeva che io fossi al mondo. La sua storia l’ho conosciuta domenica, all’alba: l’ho ascoltata nel momento in cui quella storia è mancata. Nel momento della sua morte. Che, per un intreccio misterioso, ha zigzagato nelle discussioni proprio nel giorno in cui si andava alle urne per una questione di governo, di potere, un tentativo di agognata immortalità. Per un discorso proiettato sul futuro: “Domattina, chi ci governerà?” Nel mentre di quei ragionamenti, la notizia s’infila in punta di piedi, a bassa-voce: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). È promemoria dei Vangeli, è certezza che accomuna tutto l’umano: i chiaroscuri della vita non sono proprietà privata dei cristiani. A loro, per grazia ricevuta, la possibilità del tempo vissuto diversamente. Diversamente mortali.
C’è tutta una letteratura, oggi, che spinge i giovani a lavorare sul futuro: la giovinezza come slancio, il demone del sogno, l’ardire dell’immaginazione. È la più bella sfida, quella ancora capace d’attrarre come una calamita la curiosità di molte anime giovani: “L’importante è che tu abbia un sogno. Che sappia bene dove vuoi arrivare” – è il credo che si ama professare. Il futuro come possibilità. Anche, però, che non ci sia un futuro così lungo come ci hanno illuso di poterlo avere in nostro potere: «Nessun giovane può credere che un giorno morirà» scrive W. Hazlitt. Eppure, in settimana, è stata questa l’eredità germogliata “in memoria di un capitano”, di Davide Astori: il futuro non ci appartiene. Ci è solo concesso quel lusso, il più bello, di tentare d’immaginarcelo dando forma ai desideri del nostro cuore. Il nostro passato: quello ci appartiene. È quello che dovremmo imparare a rigiocarci nel nostro tempo presente. Non tanto, dunque, “l’importante è che tu sappia dove vuoi arrivare” quanto l’esatto suo contrario: “Ciò che conta è che tu tenga a mente da dove arrivi”. Senza una memoria di ferro, il sogno mette radici molli come un budino: il desiderio si tramuta presto in illusione, l’esistenza pare tramutarsi in fatalità, il presente soffre la fiacchezza di chi ha finito il carburante.
Il ricordo della propria finitezza quaggiù è rimasta la lezione educativa con il più alto tasso di sincerità, col minimo rischio d’illusione. Aiuta a tenere bene in mente il nostro passato – le cose ricevute, quelle fatte, quel pezzo della nostra storia già scritta -, preservandoci dal rischio di imbarcarci su un treno del quale, magari, si conosce a malapena l’orario ma non la destinazione. Saliti perché era una moda salire, perché ci hanno invitato a farlo, perché tanti stavano salendo. Non conoscevo per nulla la storia del capitano Astori, non sapevo nemmeno chi fosse: pensandoci, però, ho capito che la conoscevo così bene quella storia – «Memento mori», quante volte ho incrociato la forza d’urto di questa frase – d’essermela scordata, con piena capacità di intendere e di volere. Immaginare il proprio futuro scansando il passato è azione temeraria tra le più ammaliatrici. È anche destinazione tra le più tragiche: un quasi-suicidio, un salto nel vuoto.
Negli stessi giorni, il Papa ha rilanciato la «24 ore per il Signore»: un giorno intero di invito alla confessione. Per fare memoria di chi siamo stati: peccatori ai quali Dio usa clemenza, accreditando giorni-in-più. Non conoscerne il numero è aiuto a non pensarli infiniti. A non fare conti sul futuro senza l’oste del passato.
(da Il Mattino di Padova, 11 marzo 2018)
(immagine tratta da www.rivistanatura.com)