CHESTERTON, UN PENITENTE GIOIOSO
di Fulvio Panzeri, pag.27, Avvenire, del 2 marzo 2010

contemplareDi quanto la parola di un grandissimo autore qual è Chesterton sia ancora attualissima, nella sua lucidità di giudizio e nella sua ironica visione del mondo e della Chiesa, lo stanno a dimostrare alcuni scritti minori che ritornano in libreria, in nuove edizioni, dopo fugaci apparizioni in italiano di molti anni fa. Ora è la volta de «La Chiesa cattolica.
Dove molte verità si danno appuntamento», ora riproposto da Lindau, testo quasi inedito, mai più stato ristampato in Italia dopo una prima edizione degli anni Cinquanta. E non si riesce a capire perché, in quanto questo risulta «capitale» per capire, non solo la conversione di Chesterton, ma per ritrovare la coscienza di quanto il cristianesimo e la pratica della fede abbiano bisogno di mettersi continuamente nell’ottica del «convertito», per ritrovare una certezza e una fiducia rinnovati, sia per il proprio «credo», sia per l’appartenenza alla Chiesa cattolica. È un testo scritto nel 1927, breve ma assai incisivo, in cui Chesterton mette a confronto la Chiesa anglicana con la Chiesa cattolica, proprio per discutere in profondità la radice della propria scelta, per testimoniare non solo la grande gioia ricevuta dopo il passaggio al cattolicesimo: «Diventare cattolici allarga la mente. In piedi nel punto in cui tutte le strade si incrociano, l’uomo può guardare in fondo a ciascuna e rendersi conto che provengono da tutti i punti del cielo». A Chesterton interessa soprattutto interrogarsi sui pregiudizi di una cultura che ha fatto sì che la sua formazione si nutrisse di considerazioni errate sulla Chiesa cattolica. Questo scritto può essere letto quindi anche nell’ottica di una «confessione» laica, perché come sottolinea lo stesso Chesterton «se un convertito vuole parlare di conversione, dovrà cercare di ripercorrere i suoi passi all’indietro, uscendo da quel santuario per tornare al deserto assoluto in cui credeva davvero che questa eterna giovinezza fosse solo la Vecchia Religione».

Lo scrittore sa che questo è difficilissimo, ma ci prova, anche se con molti dubbi, tanto che alla fine di questo divagante saggio in cui delinea, anche attraverso la propria esperienza, l’anima del convertito, si trova a constatare quanto «questi appunti siano troppo personali, eppure non posso immaginare come si possa illustrare altrimenti un qualsiasi concetto di conversione». Riletto oggi il libro assume un carattere molto più largo che travalica la singola esperienza chestertoniana per porsi come un saggio che mette in luce la necessità di riconoscere il proprio errore. Un quaderno «penitenziale» quindi che diventa «il libro d’ore» per questi giorni di quaresima, visto che è segnato da una convinzione: «Non è fanatismo avere la certezza di essere nel giusto, mentre lo è non arrivare a immaginare come potremmo esserci sbagliati». Proprio in quest’ottica riusciamo a capire l’importanza che l’autore pone nel sacramento della Penitenza: «Il convertito ne è abbastanza vicino da averne scoperto il realismo, ma non ancora a sufficienza per vederne la ragionevolezza e il buon senso».
È necessario, quindi, ritrovarsi, interiormente, in quanto «l’ancor più minuscolo confessionale è come una chiesa dentro la chiesa», un luogo dove scoprire che «la fede è un paradosso più grande se contemplata dall’interno piuttosto che dall’esterno».

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