In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
(Vangelo di Luca cap. 9 vv. 28-36)
Se tu ci pensi, quando si sta partendo per un viaggio è sempre emozionante. Ma quando s’avvicina l’ora di tornare è lo stesso? Quando a giugno si porta a casa una pagella luminosa, che gioia nel volto. Ma a settembre quando è ora di ri-cominciare è lo stesso? Che conquista completare un grande puzzle? Ma quando devi aprirne uno nuovo e ripartire è lo stesso? Il giorno in cui ti sei sposato:un sogno da mille e una notte. Oggi è ancora lo stesso? Stai vivendo un momento felice nella tua vita: il sogno sarebbe quello che non finisse mai: sai, lì, sistemati tre metri sopra il cielo la vita è sempre bella!
E anche a te capita di imbatterti in momenti in cui vorresti fermare il tempo: ma il tempo scivola tra le dita e ti obbliga a camminare sempre.
Non potremmo mai capire cosa significò per quel pastore di nome Abramo scappare dalla sua terra al tramonto della vita. Non è storia, non è poesia, non è fascino di tempi antichi: è un dramma! Era certamente afflitto dal peso degli anni e dalla delusione quel vecchio viandante: il cammino incerto per il quale aveva abbandonato tutto non gli aveva ancora riservato nulla di buono. E malgrado ciò, di fronte ad un Dio che torna a fargli la promessa di figli numerosi come le stelle del cielo, Abramo crede. E quando viene sfiorato dalla stanchezza e dalla tentazione di sistemarsi in un piccolo territorio, Dio stesso s’incarica di condurlo fuori facendogli provare l’ebbrezza di un orizzonte smisurato. E Abramo cede alla commozione.
Aver fede, per il pastore di Ur dei Caldei, significa scommettere su una parola che ti propone un itinerario diverso, sconosciuto, ancora tutto da esplorare. E in mano non hai nulla. E i piedi calpestano una terra che profuma di stranieri. E gli occhi sono costretti a guardare oltre la siepe. E la memoria, fortunatamente, non può riposarsi sulla nostalgia del passato, ma viene sbattuta in avanti. Fede è battere il naso. Che importa? I martiri sono arrivati di là con qualcosa di più del naso ammaccato. Ma Abramo, come don Marco – forse come te – esigerebbe qualche dettaglio in più prima di rischiare la faccia: “Signore, come potrò sapere che ne avrò il possesso?”. E Dio (commovente la sua onestà) ci mette la parola! Firma con la parola. E la Parola deve bastare. Ti deve saziare la Parola. Ogni giorno quella parola non ti annuncia che sei arrivato, che ti puoi installare, che ti è consentito dormire. Ma ti ricorda che sei atteso “altrove”, che l’appuntamento è fissato al di là.
La chiamata di Dio è sempre un segnale di partenza!
Anche per Pietro la vita non era stata facile dai giorni in cui aveva abbandonato le barche per seguirlo. Che poi ora dovesse “soffrire molto” fino ad essere “messo a morte” (Lc 9,22), la sua mente non poteva proprio contenerlo. Ma lassù, sulla cima di quel monte, è proprio di quello che egli torna a parlare con due anziani, Mosè ed Elia. Ciò che avviene sul monte è una sorta di anticipazione di quel mondo trasfigurato che attendiamo. Certi attimi di luminosa pienezza in cui urliamo “è bello per noi stare qui” possono accadere già oggi: vorremo bloccare il tempo, piantare tende immobili al vento. Ma non sono che attimi, nei quali si resta poi impietriti. Perché dal monte si deve scendere: è un comando. Un’esigenza d’amore.
Ma è tentazione per noi, che siamo fatti per gli incanti, fermarci dove si è felici, dimenticare giù a valle le tribolazioni e il destino degli altri. Come Pietro e la sua prima sbadataggine: lui, pescatore di un mare stretto tra sponde, la vorrebbe trasformare in un soggiorno definitivo quella gioia, in un riparo protettivo contro la croce. Non vuol tornare a valle: non gli vanno giù quelle tre tende là in cima, quel dolce vivere in pochi, senz’affanni, senza mai più morire. E ti risuona quella splendida dichiarazione di tenerezza che Gesù di Nazareth compone per Pietro: “Quand’eri più giovane, ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18). Come sul monte, l’invito è a portare i tuoi amici in alto, fuori dal rumore, e far vedere la tua vera faccia, far sentire come è “bello per noi stare qui”. Toccarli e dar forza, togliendo loro la paura. Poi, senza creare tende, tornare a vivere nel proprio spazio quotidiano. Certo: tu sai qual è la meta. Ma quella che raggiungi oggi non è definitiva. Al sorgere del sole si ri-parte senza sapere dove la sera pianterai la tenda. Ti rideranno dietro, ti oltraggeranno, ti giudicheranno imbecille perché non costruisci casa, non investi in immobili, non innalzi barricate e cancelli comandati a distanza. Rideranno perché per loro non hai le carte in regola.
Mi piace immaginare questo Dio che provoca Abramo. Un Dio che il Cantico dei Cantici te lo tratteggia nascosto dietro il muro, che sgrana gli occhi dalla finestra, che spia dimentico delle inferriate, questo Dio così vivace, creatore, fantasioso, amante della vita. E dall’altra parte quest’uomo, sazio di giorni e carico di anni, che Dio chiama colomba, amico, ma che sta nelle fenditure della roccia, che non sa far vedere il suo volto, che si vergogna di mostrarsi e far sentire la sua voce. E’ musica del cuore: Dio che danza e l’uomo che si nasconde.
Gente, questo è un manuale d’amore! “Lo condusse fuori”: cioè lo strappa alla sua malinconia. Fuori dalla tristezza e dal torpore, dalla noia e dall’apatia, dai calcoli e dai guadagni, dai decibel, dai BOT, dai CCT, dalla mormorazione, dallo schifo dei giudizi, dal fango di piccoli sogni. Fuori! E quando sei fuori, come una mamma, ti tocca il mento e ti sussurra: “Guarda in cielo e conta le stelle”. Magnifico: gli fa alzare lo sguardo, gli insegna la geometria delle altezze, gli ricorda il profumo dell’aria, il disegno delle nuvole, lo stupore delle rondini, il brontolio dei tuoni, il rosa delle aurore, il rosso dei tramonti, il mistero delle stelle! Guardare: calarsi dentro, scavare, scendere. Guardare le stelle! Le stelle o le stalle. Il mistero o il calcolo. La follia o l’abitudine, la nostalgia o il rimorso. E Abramo, con il dito, prova a contarle. “Se riesci a contarle”. Splendida ironia! Quasi a dire: Abramo, fidati! Sono troppo per essere calcolato!
Cenere in testa, acqua sui piedi, follia nel cuore: il miscuglio per tentare la scalata della santità nel tempo di Quaresima. Santi. Perché per arrivare a tutti i santi, occorre aggiungerne sempre uno. Può anche darsi che ne manchi sempre uno. Che ce ne sia uno in meno. Forse sono io che non entro nel conto. Può darsi sia tu.
Comunque, la terra è sempre a disposizione.
GOD BLESS YOU!
Buona settimana