Nella Piana di Gioia Tauro esplode la protesta. Il colore della pelle dopo millenni di storia amica e infausta stenta a ridimensionarsi in un’epoca storica dove il migrare delle genti e il flusso dei popoli chiede all’uomo la capacità d’armonizzare una diversità che solo a parole luccica d’oro. Ci prova la Chiesa, ci prova la politica, ci provano gli uomini e le donne di buona volontà: ma forse non è altro che un timido, seppur geniale e lodevole, tentativo di arginare un fiume sempre pronto a straripare: come tra le viuzze strette e meridionali della cittadina di Rosarno. Eppure i vigneti dell’Alto Adige, le concerie del Veneto laborioso, le grandi catene di montaggio lombarde, i possedimenti terrieri del centro-sud spingono e sfruttano questa gente venuta in cerca di fortuna, sospinta da un gommone e da un pugno di illusioni. Una parte dell’Italia invoca l’accoglienza, l’altra risponde con l’esigenza della sicurezza, qualcuno avvalla un’accogliente sicurezza ma nonostante tutto l’integrazione diventa sempre più cavallo di battaglia troppo mediatico e troppo poco pratico. Certamente il gioco è più complesso di quello che possiamo capire, ma non per questo sfugge la fatica di vedere una società sfilacciarsi sempre più e dividere il mondo in bianchi e neri, asini e geni, credenti e apostati: un modo disonesto di interpretare le mille differenze all’opera sin dal giorno sesto della Creazione. Forse non sappiamo neppure noi cosa vogliamo: parliamo di integrazione ma difendiamo casa nostra fino a farla diventare cosa nostra, suggeriamo l’accoglienza per trovare un credito superiore al prossimo estratto conto, diveniamo paladini della giustizia fintantoché a pagare è il vicino di casa: troppe manifestazioni e appelli accorati nascondono l’ambiguità di tenere un rendiconto personale a portata di mano. “Integrazione” è la bella parola che mette d’accordo un po’ tutti: ma forse tra le strade di paese dovremmo ritrovare il coraggio di conoscere chi siamo, da dove veniamo, dove vogliamo andare. Dopo tutto uno s’avvantaggia nell’inserimento uno straniero (siamo tutti stranieri quaggiù, in realtà) quando trova una personalità forte con cui confrontarsi, una cultura solida alla quale avvicinare la sua, un animo sicuro e ordinato per agganciarne il contatto. I fatti quotidiani, invece, raccontano di un’Italia e di un Occidente incapace di leggersi, di comprendersi e di accettarsi. Troppe realtà per millenni ritenute intoccabili sono cadute per osare di dare ancora delle certezze: rimane però l’insuccesso, l’amarezza, l’insoddisfazione, la delusione di non capire un gran che del futuro ormai prossimo. Ragione per cui i segni dei tempi vanno letti con cautela, senza isterismi collettivi o bambinesche sceneggiate “da Montecitorio”. In casi come questi – da Rosarno al tetto del 30% degli stranieri in classe – vige sempre il consiglio di Ignazio di Loyola: in tempi di desolazione è molto importante non prendere decisioni.Oggi che su qualche statua di Cristo si mette la kefiah per essere politicamente corretti non stupisce che all’esigenza dell’integrazione si risponda con i manganelli o le spranghe: la violenza è tipica di chi non si conosce e non si apprezza più. O, per dirlo con le parole del Ratzinger pontefice, di un Occidente che odia se stesso fino a tramutarsi in una personalità arrendevole e sciocca.
Ma dialogare con uno sciocco è la sfida più inutile che ci sia perché prima ti porta al suo livello, poi ti batte per esperienza.