Il pubblico non mentedi Chiara Sirianni, da Tempi, del 9 dicembre 2009, pagg. 58 – 59
C’era una volta la televisione di qualità che cercava di essere migliore del suo pubblico, di intrattenerlo, ma anche di elevarlo. E oggi? Con l’auditel che ha soppiantato gli indici di gradimento, i gusti dei telespettatori che cambiano, i reality show che si moltiplicano pensare a una funzione “educativa” del piccolo schermo è possibile? Secondo Ettore Bernabei, colonna istituzionale della storia televisiva italiana, la risposta alla domanda non è una filippica contro la tv spazzatura, ma l’osservazione di un dato molto chiaro: «Le persone hanno più voglia di realtà di quanto non si creda. Il telespettatore è più maturo di quel che immaginano i signori dei palinsesti». Alla testa della televisione di Stato dal 1961 al 1974, oggi Bernabei è presidente onorario di Lux Vide, casa di produzione che dal 1992 continua a sfornare fiction di successo. Produzioni storiche, in accordo con l’antico mito dell’edutainment, ma anche copioni come il fortunato Don Matteo (giunto alla sua settima stagione) e l’ultimo ambizioso remake di Pinocchio, il burattino di legno che ha battuto l’artiglieria pesante di Mediaset, in onda con la puntata del Grande Fratello in cui il tanto atteso trans entrava nella casa di Cinecittà. La favola di Collodi ha tenuto incollati al video 7.424.000 spettatori, contro i 5.535.000 fedelissimi del reality show condotto da Alessia Marcuzzi. Niente altro che la conferma di quel che Bernabei ama ripetere: «Il pubblico non è come vorrebbero far credere che sia. Cercano di renderlo malvagio e perverso. ma lui resiste».
Oggi chi si lamenta della tv spazzatura si sente rispondere che il peggioramento della qualità del piccolo schermo dipende dal cortocircuito ascolti – pubblicità. quando ha assunto l’incarico di direttore generale della Rai, negli anni del boom economico, quali erano i criteri che guidavano la composizione dei palinsesti?
Erano criteri di servizio pubblico, tenendo presente un principio universalmente valido: la televisione deve essere fatta per il telespettatore, che è il destinatario, pensante del patrimonio culturale veicolato dal piccolo schermo, non per gli agenti pubblicitari. La pubblicità può concorrere al finanziamento del programma, ma non può determinarne i contenuti. Non dimentichiamo che nel dopoguerra tutti i governi democratici dell’Europa occidentale, nessuno escluso, optarono per la nascita di televisioni pubbliche, e quindi concessionarie di un servizio offerto dallo Stato. È in seguito che il prevalere degli interessi settoriali ha portato a un degrado, che si è declinato in formule sempre più coinvolgenti, emotive, ma svuotate di contenuto, a discapito di modelli più riflessivi, piùcolti e più rispettosi delle convinzioni e dei modi di pensare della maggioranza della popolazione. oggi la maggioranza dei finanziamenti delle spese di produzione dei programmi è sostenuta dalla pubblicità. Certo non rimpiango la tv di allora e non la ritengo migliore, tanto è vero che a settant’anni mi sono assunto il rischio di un’impresa privata di produzione. Se c’è una nostalgia è quella del rispetto del telespettatore, che non è più considerato una creatura libera e responsabile, ma un consumatore.
È plausibile pensare che il tipo di offerta abbia gradualmente cambiato anche le esigenze del pubblico, indotto a scegliere prodotti “analgesici” per distrarsi?
Il problema chiave della comunicazione televisiva, e oggi si potrebbe dire telematica, non sta nella trasmissione o nella distribuzione dei programmi, ma piuttosto nell’ideazione e nella realizzazione dei contenuti, siano essi informativi o di intrattenimento. Pensiamo al rifornimento idrico di un grande centro abitato: il problema della potabilità non sarà relativo all’acquedotto, ma riguarderà la purezza dell’acqua che si vuole distribuire dentro quei canali. L’acqua è il nostro patrimonio culturale, che si trasmette all’umanità attraverso le varie reti e sistemi di comunicazione telematica: e non è vero che il pubblico vuole la tv spazzatura, se mai la subisce. Se mettiamo a disposizione della gente un buon prodotto, ci rendiamo conto della sete dei telespettatori: così è avvenuto ad esempio per la nostra fiction Don Matteo, giunta alla settima stagione, oppure per Un Medico in famiglia, serie prodotta da Publispei e Rai fiction. Gli sceneggiati prodotti dalla Rai ebbero forte carattere culturale: attingevano dal teatro e dalla letteratura. Io preferisco usare ancora questa parola per parlare della nostra fiction italiana, perché lo sceneggiato è la versione telematica del teatro, e la rappresentazione teatrale è quanto di più realistico ed essenziale ci sia nella vita dei popoli, perché porta a riflettere sui fondamenti dell’esistenza. I reality show, invece, sono la negazione totale della realtà della vita: sono una finzione scenica che avviene sotto l’occhio deformante delle telecamere, si basa su copioni che questa presunta gente normale deve seguire ed è organizzata da mediocri registi.
Con quali conseguenze?
Il risultato è che vengono presentati all’immaginario collettivo modelli di vita, soprattutto familiare, che pur facendo parte del caleidoscopio delle vicende umane riguardano atteggiamenti di nicchia e che non hanno nulla a che vedere con l’essenza fondamentale dell’umanità. Viceversa, esiste una maggioranza di persone che vivono semplicemente, modestamente e anche con difficoltà la vita degli uomini e delle donne in carne ed ossa, e che da questa favolistica intimista e psicologica non si sentono, giustamente, rappresentate. Qualità vuol dire anche coerenza con la vita vissuta. Quando si parla a milioni di persone bisogna farlo con modestia, con umiltà, pensare a ciò che cercavano Euripide, Sofocle, Shakespeare, Pedro Calderón de la Barca, Carlo Goldoni.
Quali prospettive vede per il futuro?
Malgrado tutto sono ottimista. La spinta verso un modo non comatoso di fare televisione partirà dai giovani. Alcuni dei nostri editor lavorano con noi da 15 anni, altri sono neo-laureati e diventeranno sceneggiatori professionisti, aiuto registi, registi. E speriamo che qualcuno diventi anche produttore, e ci faccia concorrenza. Goldoni in fondo ebbe la meglio sulla commedia dell’arte: perché dunque la fiction di qualità non dovrebbe alla fine prevalere sui reality show?