Spogliati in fronte all’Eterno, a volte s’avverte tutto l’impeto di una Parola che, calando dalle Altezze, dilaga scriteriata nello scorrere frenetico e confuso della storia. Seppur in sordina – distante da botti, champagne e panettoni – l’ultimo calar del sole ha salutato un anno consumatosi, per aprire le finestre della storia su un anno vergine, nuovo, liturgico. L’ennesimo spazio accordatoci a “tasso zero” da Dio per ri-alzare lo sguardo a Lui. Eppure, sulla soglia, domina l’eco di una parola di profeta. Lungi dal nascondere la realtà: “Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?” Addentrandosi nella riflessione di Isaia, le immagini riescono laddove le parole non arrivano: sono forti, crude, acerbe, forzute e possenti. Sono immagini che, abitandoci, aprono: parlano di contaminazione, di stoffa lercia, di fogliame avvizzito e spostato dal vento. Quasi un sonno del pensiero, del desiderio, dell’azione: “nessuno si riscuoteva per stringersi a Te”. Fino a rinfacciare a Dio, Vasaio per scelta, d’essersi allontanato dalla sua creta.
Ai tempi di Isaia s’era appena tornati dall’esilio: occorreva rimettersi in piedi, ringiovanirsi, ritrovare speranze e aneliti perduti. Eppure qualcuno oggi si guarderà attorno, quasi a condividere la scossa di un editoriale celeste sull’umana confusione dell’oggi: gli attacchi all’hotel Taj Mahal, le misure contro la crisi, i morti sulle strade. La schiavitù, le sbronze, la noia. La disoccupazione, l’indifferenza, la povertà. Il terrorismo, le minacce, l’insicurezza. E un Dio che, apparentemente distratto, sembra trastullarsi nell’Eterno. Come ai tempi narrati da Isaia. Fino a velarci il suo Volto. Eppure a Dio non è oscuro il sangue terrorista dell’India, quello martire di Mosul, quello bellico dell’Iraq. E nemmeno la sfida babelica della Spagna senza crocifissi, l’indifferenza festosa degli autobus di Londra, la noia scomposta e cercata dell’uomo indaffarato. C’è scritto ovunque: “Dio ti vede”: negli autogrill e nei casoni diroccati, nei guardarail e negli zaini studiati, nei sedili dell’autobus e nei piloni della luce. Eppure sembra che oggi Dio dica: “Non ti vedo”. Fatica ad intravedere i nostri lineamenti, le tracce di luce, quel frammento di bellezza che c’aveva sistemato nella Creazione a mo’ di riconoscimento. Quasi che tra Cielo e Terra ci fosse una coltre di nuvole a intralciare gli sguardi: quello che la teologia chiama “peccato”. Giusto il tempo di pensionare un Novecento che ha intonato a squarcia gola la morte di Dio – con relativi brindisi e partecipazioni – che giunge il peso di qualcosa di insopportabile, d’angosciante, di tremendo: l’essere in balìa di noi stessi. Liberi: ma disorientati. Slegati dal cielo e obbligati alla terra. Staccati da Dio e allacciati all’ignoto dell’uomo. Siamo creta. Ma vorremmo essere vasi: senza essere lavorati dal vasaio, però. Siamo strani sotto il cielo.
Direbbe Isaia: “Signore, non adirarti troppo. Tu sei nostro Padre. Noi siamo argilla e tu colui che ci da forma”. Rimane una speranza: stamane, nonostante tutto, scopriamo un Avvento nuovo. L’invito ad una Speranza, l’Attesa di un Bambino: cioè dell’innocenza, del candore, della limpidezza. Di una nuova chance.
L’ennesima: per ritornare ad essere creta fatta funzionare da Mani sicure.