L’utopia di una tv maestra di vita
di Sergio Zavoli, da “Il Giorno”, 16 novembre 2009, pagina 22
Diciamo di voler globalizzare il pianeta, ma lasciando che trentamila bambini muoiano ogni giorno di fame, e crescano di continuo quelli che, nelle cosiddette «società soddisfatte», si ammalano di obesità. Di fronte a questa contraddizione nessuno, tra chi potrebbe e dovrebbe, oppone una risoluta ed efficace risposta civile, politica, etica.
Secondo gli studi pubblicati il 28 marzo 2009 dal Journal of Law and Economics dell’università di Chicago, vietando gli spot di fast food nei programmi «per bambini e ragazzi», gli Stati Uniti vedrebbero ridursi del 18% il tasso di obesità nei fanciulli, e del 14% negli adolescenti. Il divieto è già norma di legge in Svezia, Norvegia e Finlandia.
L’Italia ha il primato europeo dei minori in sovrappeso e addirittura obesi; secondo un’indagine del ministero del lavoro, della salute e della solidarietà sociale, presentata l’8 ottobre del 2008, il 23,6% dei bambini supera il peso standard e il 12,3% è già obeso. Conclusione: più di un minore su 3 è una creatura a rischio di possibili danni, anche gravi. Se poi questi valori vengono ricondotti a tutta la popolazione infantile compresa tra i 6 e gli 11 anni, si raggiunge 1 milione di bambini fuori dalla normalità.
I dati forniti dalla Società italiana di pediatria alla Commissione parlamentare per l’infanzia, l’11 settembre 2008, dimostrano come la tv direttamente rivolta a bambini e adolescenti incida sulle loro abitudini alimentari. Si aggiunga che, in base alla ricerca condotta dall’Università di Roma Tre in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, resa pubblica il 7 giugno del 2007, un bambino italiano che consumi 3 ore al giorno di televisione, nell’arco di un anno riceve 32.850 messaggi alimentari: 1 ogni 5 minuti, contro 1 ogni 10 nel resto d’Europa. Il rapporto tra questa specifica comunicazione e i comportamenti dei minori è stato sottoposto ad analisi da 24 reti televisive in 11 Paesi Europei, e la situazione italiana è risultata la peggiore.
Ma è persino più scoraggiante apprendere che l’idea di usare la pubblicità per indicare come e cosa mangiare è una pedagogia utilizzata solo in Spagna, Gran Bretagna, Polonia e Portogallo, cioè in paesi che giudichiamo con qualche supponente indulgenza.
Non è, comunque, un vieto, ideologico, datato discorso contro la pubblicità, ma l’invito all’industria alimentare a ricercare i modi per depotenziare gli aspetti più negativi dei loro prodotti. A questo punto, spinto da un interesse che coltivo da quando ho presieduto una commissione governativa devoluta alla tutela dell’infanzia in ordine ai danni che può produrre un consumo errato, cioè suggestivo, della Tv, ho voluto approfondire la conoscenza di un progetto che in Parlamento potrebbe trovare una convalida legislativa augurabilmente sottoscritta da maggioranza e opposizione; e ringrazio Anna Serafini, con quanti le sono accanto in questa impresa, per avermi anticipato, seppure nei loro tratti essenziali, le linee di un disegno di legge volto a proteggere, col concorso di tutte le parti chiamate in causa, un interesse non di rado vitale per bambini e ragazzi – punto centrale di una più vasta questione che investe il rapporto tra i media e la cosiddetta «fascia debole» – tenuto conto dello statuto dei loro diritti, del codice di auto-disciplina pubblicitaria, del divieto di pubblicità nei «cartoni animati», delle indicazioni comunitarie, e così via.
Uno degli obiettivi della Serafini – prima firmataria del testo attualmente allo studio di tutti i suoi proponenti per trovare il più vasto coinvolgimento possibile nelle aule parlamentari – è la nascita di una Commissione (formata da psicologi, sociologi, medici, nutrizionisti, docenti di storia delle comunicazioni, imprenditori, tecnici della pubblicità, rappresentanze di insegnanti e genitori) che elabori un regolamento in base al quale possano accedere al palinsesto i programmi televisivi nati per i minori solo se rispondenti alla necessità di promuovere e salvaguardare scopi socio-educativi, conseguibili attraverso modalità linguistiche, espressive, concettuali, certificate da una sorta di bollino che indichi un «si trasmetta» oculato e vincolante. Dopo tante sperimentazioni, fallite anche per la mancanza di precise facoltà sanzionatorie, un’adesione bipartisan affronterebbe finalmente l’allarme suscitato da un fenomeno di questa gravità. Può essere l’ennesima illusione, ma è doveroso tentare.
Diventa quasi stucchevole rimarcare che ogni giorno, in Occidente, si spendono migliaia di miliardi per allestire campagne promozionali con cui tener vivo l’universo del superfluo. I creatori surrettizi della stravaganza e della futilità mobilitano valanghe di denaro; e se i padroni del «di più» rinunciassero a una piccola parte dei loro profitti colmerebbero voragini di veri bisogni, di autentiche sofferenze. Non si può trovare un giorno da dedicare ai bambini che muoiono d’inedia o di opulenza, dentro questa inconciliabile famiglia umana, per scuotere la ragione e l’anima del mondo?
Umberto Galimberti osserva: «… Ma quando ci dicono che nel mondo ogni otto secondi muore (per colpa nostra) un bambino, ci troviamo davanti non a una tragedia, ma a una statistica, dinanzi alla quale i nostri sentimenti piombano in una sorta di analfabetismo emotivo». Servirebbe una grande chiamata delle Tv, delle radio, dei giornali, e poi di parlamenti e governi, per mobilitare finanza, banche, imprenditoria, società, scienza, chiesa, famiglie, mass media intorno a un problema di questa portata. Quanto a coloro che propongono e governano modelli trasmettendo valori non dovrebbero sentirsi al centro del problema? Fatti salvi gli equilibri, per tutelare ogni legittimo interesse, un appuntamento fissato dall’umanità, dopotutto con se stessa, per stringere una grande, benefica alleanza non assolverebbe un debito della nostra coscienza lasciando un segno nella nostra storia?