La catasta di scatoloni sembrava fissarmi in maniera ostile, dal suo angolino accanto al letto, mentre la pila di libri vicino al termosifone voleva invece a tutti i costi imitare la Torre di Pisa. Chiusi la porta alle mie spalle, sospirando con un misto di stanchezza e trepidazione. Erano i primi istanti in una casa tutta “mia”, finalmente, una sorta di traguardo che mi riempiva d’orgoglio e di timore. In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per possedere un qualche potere sovrannaturale e – voilà! – vestiti, suppellettili e quant’altro sarebbero andati magicamente al loro posto, senza alcuna fatica. Passai la prima notte quasi in bianco: quelle quattro mura mi erano ancora estranee, c’erano rumori e voci a cui non ero abituata.
A svegliarmi al mattino fu un profumo. Quello di caffè. Intenso ed aromatico, come se qualcuno ne avesse appena messo una tazza fumante alla mia finestra. Fu quello che, più di ogni altra cosa, mi fece chiamare “casa” quel piccolo appartamento, una sorta di reminiscenza familiare. Ci avevo quasi preso, infatti, perché poco dopo feci la conoscenza di Biagio, l’inquilino del piano terra e della sua immancabile moka sul davanzale. Factotum e aiuto del portiere, era gli occhi e le orecchie della palazzina, dava indicazioni ai fattorini, informazioni di qualsiasi tipo a chi ne avesse bisogno. Sostava alla finestra, dalla mattina alla sera e metteva tazzine e caffettiera fumante a portata di tutti. Chi passava allungava la mano, si serviva ed intanto scambiava quattro chiacchiere in compagnia, parlando del più e del meno.
Aprivi il cancello? Lo sguardo non poteva non andare a sinistra, a quell’immancabile presenza alla finestra. Una mano alzata, un “come stai?” al volo, due parole di incoraggiamento e la giornata sembrava iniziare già con un sorriso.
Una mattina di alcune settimane fa non ci fu nessun profumo di caffè a dare il buongiorno a tutto il condominio. E non ci sarebbe mai più stato. Biagio se n’era andato, in punta di piedi, nel sonno. Senza disturbare nessuno, così com’era vissuto.
“Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.” ( tratto dal film Lo Hobbit di P. Jackson)
Tante volte, troppe, non ci rendiamo conto dell’importanza di qualcosa – o qualcuno – fin quando non ne sperimentiamo l’assenza. Io non so se lui si rendesse conto di quanto fosse diventato ormai parte della mia quotidianità, quel che è certo è che la semplicità dei suoi gesti di cortesia verso tutti hanno più volte regalato gocce di sollievo in momenti di difficoltà.
Spesso si pensa che per migliorare il mondo servano atti epici, quasi da supereroi, fatiche sovrumane e incredibili imprese. Come può la nostra routine quotidiana competere con ciò che ci sembra eccezionale? Invece no. Sono proprio i semplici atti di gentilezza ed amore che tante volte migliorano la giornata di chi li riceve, o addirittura la salvano. Tanti piccoli gesti, sparsi come coriandoli lungo il cammino, o come semi sul sentiero.
Un sorriso, una parola gentile, un incoraggiamento… Nessuna goccia d’amore donato è qualcosa di sprecato.
A te che leggi, ti auguro di incontrare almeno un Biagio nella tua vita. Qualcuno che ti saluta sempre con un sorriso. Qualcuno che, arrivata a casa zuppa dalla testa ai piedi a causa di un diluvio, riesce a fare una semplice battuta che ti farà ridere fino alle lacrime nonostante tutto. Qualcuno che saprà dire “io ci sono, se serve” anche con un semplicissimo caffè.

Buon viaggio, Biagio.

 

Fonte immagine: Pixabay.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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