L’articolo che segue non riporta necessariamente il pensiero dei curatori del sito, ma lo si propone per stimolare la discussione su di un tema, sicuramente spinoso, che riguarda il futuro di noi tutti, ma soprattutto quello delle giovani generazioni.
Ci auguriamo possa nascerne un dibattito sano, rispettoso, intelligente, costruttivo e obiettivo, come si conviene.
I bambini addestrati a venerare lo Stato
di Giorgio Israel, da “Il Giornale” del 10 novembre 2009, pagina 32
Era una pia illusione che il dominio più che trentennale del pedagogismo «progressista» abbandonasse il campo della scuola che considera come proprietà indiscussa, su cui sperimentare la sua ideologia a costo di ridurlo a un panorama di rovine.
Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, ha accusato la commissione ministeriale presieduta dal pedagogista Luciano Corradini di aver proposto un insegnamento di «Cittadinanza e Costituzione» concepito come il vangelo di una religione politica volta a formare nientemeno che l’Uomo Nuovo nello spirito di un’etica di Stato illiberale. Ma il dibattito rischia di andare sul binario sbagliato se diventa uno schierarsi a favore o contro un simile insegnamento o come una discussione sulle sue modalità. Il problema che Galli della Loggia solleva – a mio avviso correttamente – è assai più profondo. Non è in discussione l’opportunità di insegnare gli elementi della Costituzione: è bene che gli studenti conoscano i principi che presiedono alla formazione delle leggi in questo Paese. Quel che è inaccettabile non è solo che si faccia della Costituzione un catechismo, ma l’ideologia sottostante: voler usare questo strumento come mezzo di formazione della personalità dei giovani, concepire la scuola non come un luogo di trasmissione di conoscenze e di cultura, bensì come strumento per la formazione dell’Uomo Sociale ideale. Dietro la prosa della commissione Corradini rispunta il cavallo di Troia del pedagogismo progressista, in questo caso di marca cattolico-dossettiana, che non rinuncia a stendere la sua mano morta sul sistema dell’istruzione.
Galli della Loggia coglie perfettamente il punto quando parla di un’ideologia che concepisce la scuola non come luogo di istruzione ma luogo di educazione. E, aggiungo, di educazione totale, anzi totalitaria, di cui è esempio il modello della Educación para la Ciudadanía che il governo Zapatero tenta di imporre alla Spagna. Non voglio qui esplorare il problema della coerenza con cui persone che i giorni dispari difendono il valore della famiglia e combattono il laicismo di Stato, i giorni pari vogliono una scuola che educhi a «promuovere il benessere proprio e altrui», a «esprimere sentimenti ed emozioni», a creare un’«etica universale». Sono contraddizioni laceranti su cui si dibatte parte del mondo cattolico, soprattutto progressista, che, mentre proclama di difendere lo spazio educativo della famiglia, aderisce a dottrine pedagogiche di matrice scientista e totalitaria (da Rousseau a Dewey a Makarenko) e si scava la fossa da solo. Sono contraddizioni su cui si dibatte anche parte del mondo laico. E se è comprensibile che il pedagogismo etico di Stato possa essere in consonanza con una certa eredità culturale di sinistra, è meno comprensibile che chi si dichiara liberale possa unirsi a chi propone l’ora di «educazione all’affettività» o i «corsi di sentimento». Simili contraddizioni fanno capire perché ha senso dire che la nostra società ha perso la capacità di educare, tende a disfarsi del problema per pigrizia, incapacità o paura, demanda tutto alla scuola e a una corporazione di specialisti dell’educazione, depositari della dottrina che prescrive come deve essere fatto un uomo giusto, buono e socialmente positivo.
Certo, se si attribuisce alla scuola una simile funzione di educazione totale, questa corporazione deve esservi: qualcuno dovrà pur scrivere i libri che stabiliscono le regole del vivere civile, dell’affettività, dei comportamenti relazionali corretti. Invece, la grandezza di una società liberale sta nel lasciare ciascuno «libero» di prendere la via che preferisce, dandogli lo strumento principe per tale scelta: la conoscenza. Perché la conoscenza, e soltanto la conoscenza, è libertà. Il resto lo si costruisce giorno per giorno: nella famiglia in primo luogo, con i maestri, con gli amici, nelle esperienze di relazione sociale. Ma se l’educazione è di Stato, allora occorrerà una corporazione di specialisti dell’educazione che si collochi al di sopra di tutti. Peraltro, la patente di detentori della verità educativa costoro non possono che conquistarsela attraverso un’affermazione di potere, e poche cose sono antidemocratiche come il potere dei «sapienti». È quel che stiamo sperimentando da un trentennio. Ed è una storia senza fine, perché il pedagogismo di Stato esce dalla porta e rientra dalla finestra, con l’aiuto di una burocrazia ministeriale ormai plasmata dalla sua ideologia «progressista».
È evidente che una siffatta corporazione, per restare in sella, ha bisogno di distruggere la figura dell’insegnante «maestro», di ridurlo a mero «facilitatore» che applica le teorie calate dall’alto. Di qui l’ossessione metodica con cui si proscrive l’uso di qualsiasi termine che richiami sia pur vagamente la scuola che trasmette conoscenze e cultura a favore del politicamente corretto pedagogista. È drasticamente vietato parlare di programmi, di discipline, di idee. La parola «conoscenze» è pronunziabile soltanto entro la trinità delle «conoscenze/competenze/abilità». Mi scriveva un professore di recente che, stufo di un questionario in cui si chiedeva quale abilità formasse la sua materia, la fisica, ha osato scrivere che essa non forma abilità bensì trasmette «idee»… Ha rischiato il linciaggio. Già, perché l’occhiuta sorveglianza con cui si cerca di imporre a ogni insegnante una serie di adempimenti e un linguaggio che riflettono l’ideologia della «comunità educante» evoca la funzione del Commissario politico. Mi scriveva un altro insegnante che la pretesa di imporre l’uso di schemi e termini codificati mira all’«annichilimento dell’autonomia professionale degli insegnanti da parte di questi nemici giurati del buon senso». Eppure, provate a chiedere a qualcuno di costoro il significato esatto del termine «competenze»: non ve lo saprà dire. Ancor meno saprà dire come si misurano le competenze: gli stessi «specialisti» del settore ammettono che questa misurazione è impossibile. Ciononostante, un’altra prescrizione sta per abbattersi sulla scuola: la «certificazione delle competenze». In un’altra occasione proverò a spiegare quale tsunami ciò potrà rappresentare per il sistema dell’istruzione.
Per ora concludo osservando che questi ultimi aspetti non sono altra cosa della questione da cui siamo partiti: il nesso è l’ideologia secondo cui occorre plasmare le teste e non trasmettere conoscenze. Queste ultime sono secondarie, e di esse si può fare (e si fa) scempio. In questi ultimi tempi, è emersa nella scuola un’insofferenza crescente verso questa ideologia. Ma in trent’anni si è consolidato un blocco di potere difficile da scalfire e il riaffacciarsi della figura del «pedagogista di Stato», che si sperava definitivamente scomparsa, non è un buon segno.