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Sono un ricordo lontanissimo i merli di Italo Calvino mentre, dal bordo campo impostomi dall’occhio delle telecamere, partecipo a questa conversazione. Che, qualunque sia la postazione dalla quale si assiste, coinvolge tutti i presenti, a prescindere dal loro ruolo: la comunicazione non parte mai dalla bocca di chi parla, ma sempre dall’orecchio di chi ascolta. Shemà Israel! è la prima avvertenza del Dio cristiano ad Israele, il suo popolo così duro di orecchi: “Ascolta, prima. Prima di parlare”. Ogni conversare umano è passibile di assomigliare a quei merli: «Il problema è capirsi – scrisse Calvino -. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende. L’altro gli ribatte qualcosa che non ha relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza capo né coda. I dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?» Questo, però, non è un affatto un dialogo umano, anche se è tra due umani: il Papa e una giornalista. Qui, per essere intellettualmente onesti, va detto che il dialogo è a tre: c’è un Cristo di mezzo da calcolare. E c’è un giorno, il Venerdì Santo della fede cristiana, dal quale è impossibile sottrarsi, pena la non comprensione del cuore di questo colloquio fatto di parole e di silenzi.
Pur avvezzi a sentire il Papa parlare (sentire, comunque, non è ascoltare), ogni qualvolta a parlare è Papa Francesco c’è un margine di sorpresa da dover calcolare: puoi anche conoscere la sua parola di partenza, ma non potrai mai sapere dove quelle parole ti condurranno. Verso quali prospettive accompagneranno poi la tua riflessione. Perchè anche se la finestra dalla quale contempla Dio e i suoi segreti misteri è la medesima di ogni cristiano, ad ogni Papa lo Spirito Santo affida il tesoro di una sfumatura diversa, di un accento originale a seconda delle stagioni in cui viene chiamato a vivere il suo martirio dell’essere Papa. Papa Francesco, in questo, è l’uomo delle cinquanta e più sfumature: possiede quell’invidiabile capacità di pennellare il medesimo concetto per anni e anni, facendotelo incontrare ogni volta come fosse la prima. Nulla di nuovo sotto il cielo: è tipico del Dio cristiano la testimonianza che la bellezza, quando ritorna, non ritorna mai con i vestiti della volta prima. È anche disposta a correre il rischio di non farsi riconoscere, pur di non venire meno alla sua originalità. Ecco perchè, pur armonizzando alla perfezione il cuore con l’intelletto, nessuno riuscirà a mai a dire le cose come Dio stesso le direbbe, se soltanto potesse parlare.
Nella voce di questo Papa, convergono tre voci: il suo è un magistero a tre voci, un incrocio di voci che regge sul principio dei vasi comunicanti. La prima è la voce dell’uomo, Jorge Mario Bergoglio: una voce ch’è un tutt’uno con la vita che ha vissuto, riflettuto, ricercato. Ascoltarla è esporsi nudi alla vita: c’è il sottosuolo di voci confuse delle villas argentine e le vertigini della mistica di Péguy, i suoni gravi della morte e i tocchi fini della Grazia. Trasborda la vergogna di Ezechiele, l’afflizione di Giuda, il tormento di Paolo. A seguirne le sfumature, appaiono voci di poesia, squarci di letteratura, memoir di storie personali e collettive. Colpisce quel libricino di Dostojevskij, citato quasi en passant: “Ricordi dal sottosuolo”. E, citandolo, t’appare degno di nota il sospetto che per lui, Jorge Mario, i particolari facciano la differenza: non i monumenti, le autostrade, gli eserciti ma piccole storie, le strade mulattiere, le piccole adunanze di gente. Con quell’attenzione all’occhio femminile che, quando appare, rende protagonista principale quella che per noi, magari, era una semplice comparsa di passaggio. E’ il caso di Claudia Procula, la moglie di Pilato, citata come emblema di quel fiuto femminile capace di giocare in anticipo sulle analisi dettagliate e calcolate del maschile. Colpisce, dunque, la sua capacità di entrare nell’oceano della conversazione con la sua barchetta da pesca, non con un cacciatoperdiniere. E’ con la barchetta, a tempo debito, che gli sarà possibile infilarsi nei fiordi, negli anfratti, dentro le grotte: laddove abita una freschezza che consola e incupisce, sferza e accarezza. Una bellezza che rende familiare Dio, fino a dargli del tu.
La voce flebile di Jorge Mario, poi, incrocia e si allea con la voce tonante di Pietro, il pescatore avvezzo alle buriane del mare, un po’ meno agli imprevisti del suo Rabbì. Non è mai facile definire quando, nel bel mezzo di una conversazione, l’uomo argentino diventi il Pontefice universale: non c’è una cesoia precisa nelle parole, un cambio repentino di velocità, un qualcosa che ti avvisi del cambio di carreggiata. È tutto così spontaneo, quasi impercettibile, da mettere il suo interlocutore in una situazione fortunata di Grazia: percepire, tramite l’udito, la familiarità concessa ai primi pescatori sul lago di Tiberiade. Avvicinarsi all’esperienza primordiale dei primi dialoghi della cristianità credente: quelli che – intrisi di pesci, pecore e pozzi d’acqua – creavano strane allegorie con il Cielo distantissimo. E poi così vicinissimo da metterli nelle condizioni di continuare a dubitare, ma con speranza: “Staremo a vedere!” Quando, poi, entra in gioco Pietro, le voci rauche della periferia sanno mettersi da parte per fare posto al gregoriano della teologia. Senza, però, annullarsi. E questo è il sapore del suo conversare: lasciare che sullo sfondo, come sottofondo, ci sia la vita con le sue infinite contraddizioni a dettare l’agenda della giornata e, in contemporanea, intonare il cantus firmus della teologia, perchè quelle voci possano trovare casa e affetto tra i canti della Chiesa. E i canti, provocati da quelle voci, non s’insuperbiscano.
Eppoi c’è l’accento francescano a far salire a tre il numero di voci che abita il cuore e l’intelletto di questo Papa così umano da sentirlo padre, anche nonno, certi giorni pure fratello: “Chiamatemi Francesco!” Più che un maldestro tentativo d’emulare il poverello d’Assisi – l’uomo ha la personalità ben delineata! – lego la scelta del nome ad un indirizzo di campo dello sguardo: guardare il tutto con gli occhi della povera gente. Dove l’aggettivo povera non ha accenni spregiativi ma è dichiarazione d’appartenenza al popolo degli ultimi, degli aggrediti, di chi versa in condizioni di allarme, impotenza. S’è fatto chiamare Francesco: dunque non usa i paroloni per parlare delle cose semplici. Nelle case della povera gente la polenta non è crema di mais, è polenta: usare parole complicate per esprimere concetti semplici è porger all’uditorio l’invito alla distanza. Quando ascolto Papa Francesco parlare, invece, mi rimbalza sempre alla mente uno dei detti più citati nelle aule del mio amato liceo classico: Rem tene, verba sequentur (“Possiedi i fatti, le parole seguiranno”). Quando, invece, son le parole a tentare di sostituire i fatti, conversare sarà come tirare una manciata di sassi al bersaglio, sperando che almeno uno lo colpisca. Per chi ha mira, invece, ne basterà uno. E avanzerà, anche.
Al Papa, qualsiasi nome esso porti, va dato credito, per fede, che possieda il fatto, il fatto cristiano: l’incontro con il Cristo vivente. Poi, ognuno di loro, lo farà seguire con parole su misura, bisbigliate dentro le trame di una storia così personale da impedire che la si faccia diventare un dialogo tra sordi, senza capo né coda come accade con i merli di Calvino. Non è il caso delle Parole di Papa Francesco, così secche, concise e decise da rendere così difficile il fraintendimento che, certe volte, le si ama tagliare o, tutt’al più, ammorbidire con qualche decorazione di contorno. La qual cosa, anche qui, non dev’essere affatto sconosciuta al Papa argentino se, come risposta all’ultima domanda di Lorena Bianchetti, ha scelto di risponderle con trenta secondi d’assoluto silenzio. Il silenzio dei giganti che han fatto sintesi del tutto, il silenzio dei bimbi che non sanno ancora trovare le parole, il silenzio di chi, di fronte al silenzio di Dio, sente d’appartenergli così tanto da condividerne lo strazio. Il Papa è rimasto così muto che tutti hanno parlato del suo silenzio. Che ha finito per diventare il loro silenzio, il silenzio di tutti. E’ diventato quello che ognuno di noi ha capito.
Ascoltare ciò che il Papa non dice è afferrare il nocciòlo della questione.

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(*) L’intervista rilasciata da Papa Francesco a Lorena Bianchetti, conduttrice del programma A Sua immagine, è stata realizzata l’11 aprile 2022 presso la Domus Sanctae Marthae, nella Città del Vaticano ed è stata coordinata da don Marco Pozza. E’ andata in onda venerdì 15 aprile 2022, Venerdì Santo, alle ore 14.00 su Rai Uno.

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