Tutti, un giorno, potremmo averne bisogno: la misericordia, tecnicamente, è il “pronto intervento” del Dio cristiano nell’attimo del fallimento, della caduta. È dall’anno Duemila, l’anno dell’ultimo grande Giubileo, che nella prima domenica dopo Pasqua (oggi) si celebra la festa della Divina Misericordia. Quella d’istituir questa festa, è una richiesta fatta da Gesù stesso a suor Faustina Kowalska, ripetuta per quattordici visioni: «Le anime periscono, nonostante la Mia dolorosa Passione (…) Se non adoreranno la mia misericordia, periranno per sempre» le disse Cristo. Giovanni Paolo II, durante la canonizzazione della suora polacca, il 30 aprile 2000, ne decretò l’istituzione. Non è un caso la sua posizione dentro un calendario (liturgico) già pieno zeppo di santi, beati, ricorrenze varie: è come se, appena uscito dalla tomba, festeggiasse andando a salvare quelli che sono già con un piede nella tomba della rovina, invece che a tarallucci e vin santo.
Il messaggio è chiarissimo: “Il fallimento è un ritardo, non è una sconfitta – sembra dire il Dio cristiano -. E’ un intoppo temporaneo, non è un vicolo cieco”. Papa Francesco ha fatto della misericordia di Dio la sua testa d’ariete per tentar di sfondare il cuore di cemento dell’uomo, dell’uomo di fede soprattutto. Perchè non c’è nulla come il tema della misericordia che faccia ribollire come caffettiere fumanti il cuore di chi, dicendo di andare dietro a Dio, se ne frega dei fratelli che si perdono per strada. “Misericordiando” è uno dei neologismi più mal sopportati tra quelli inventati, di sana pianta, dal Papa argentino. E’ un gerundio di lavoro, dice un’operazione sempre all’opera, testimonia il bisogno innato dell’uomo che, per stare su, ha bisogno della misericordia di Dio. Altrimenti cade. Un gerundio all’opera in questo pontificato, dall’inizio fino all’ultimo giovedì santo quando, per sua tradizione personale, Papa Francesco ha celebrato l’antichissimo rito della lavanda dei piedi nel carcere di Civitavecchia. Lì, nel carcere, stazionano i piedi di Giuda come in nessun altro posto: andarli a lavare, asciugare e baciare non è bello, ma è divino. E può infastidire solamente le anime che, per chissà quale certezza, giurano che loro non avranno mai bisogno della misericordia di Dio.
O, forse, giurando questo, è come se chiedessero un perdono immediato per un azzardo così zuppo di fandonia. Fatto sta che, Scrittura Sacra alla mano, nessuno è diventato un gran santo senza prima essersi scoperto un peccatore: chi l’ha detto che solo le vite perfette (se esistono!) sono interessanti? (Amen)
(da «Specchio» de La Stampa, 24 aprile 2022)
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