La Quaresima è un periodo cruciale da riscoprire per portare alla luce chi siamo veramente.
Non a caso, questo periodo straordinario si apre con il vangelo in cui Gesù condanna l’ipocrisia, quella maschera che ci troviamo addosso appena veniamo al mondo. Si tratta di un cammino di liberazione, camminare nel deserto, nudi davanti allo specchio di se stessi per liberarsi dal proprio “io” malato, dall’immagine falsa che ci siamo costruiti su noi stessi per essere accettati e per non soffrire; una liberazione da tutto ciò che ci impedisce di incontrarci veramente per ciò che siamo, quell’immagine di Dio che troviamo nel fondo di noi stessi.
Ecco perché il fine della Quaresima è la “festa delle feste”: la Pasqua. Ma questo attraversamento va vissuto seriamente, in modo radicale: allora sarà davvero una festa. Altrimenti sarà l’ennesimo precetto da seguire in maniera moralistica, quasi obbligati da una tradizione, senza capirne bene il motivo e l’utilità.
Non basta credere che ci è data una vita nuova ma questa “vita nuova” dobbiamo saperla accogliere nella nostra vita, tutti i giorni, dobbiamo desiderarla fin nelle pieghe della nostra esistenza, soprattutto in quelle che ci fanno più male. Dobbiamo credere che c’è qualcosa di nuovo, che ci aspetta dentro la nostra solita routine del quotidiano.
Certamente, la Pasqua è un passaggio, l’approdo alla nostra libertà interiore, libertà da ogni giudizio e paura, anche dalla paura definitiva che è la morte. Tuttavia, se non affrontiamo questa liberazione ogni giorno, davvero, in modo serio, abbandonando ogni nostra resistenza, anche la più radicale liberazione diventa insignificante e ci fa vivere sempre da schiavi di tutto e di tutti. Schmemann dice bene questo rischio: «Possiamo anche, di tanto in tanto, riconoscere e confessare i nostri vari “peccati”, ma non mettiamo più in relazione la nostra vita con questa vita nuova, che Cristo ci ha rivelato e donato; viviamo di fatto come se egli non fosse mai venuto. Questo è il solo vero peccato, il peccato di tutti i peccati, la tristezza senza fine e la tragedia del nostro cristianesimo, che tale è soltanto di nome». La méta di questo viaggio, che chiamiamo “quaresima”, è questa: ricevere una vita nuova, ricevere quella gioia che nessuno ci può togliere. Ma se non sappiamo riconoscere questa “vita nuova” e non lavoriamo per darle spazio dentro di noi, allora sarà tutto inutile: ogni liturgia e penitenza saranno inutili e la vita nuova sarà semplicemente un abbaglio, un’allucinazione destinata a non realizzarsi mai, per noi. In altri termini: devo fare il bene non per far vedere quant’è bella la maschera che indosso, ma perché ho capito che fare il bene mi salva e mi salva anche dall’ipocrisia, dal ricercare continuamente il consenso o il plauso da parte degli altri per il bene che faccio.
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