di Bertrand Vergely, da Tempi numero 43 del 28 ottobre 2009, pagg. 34 -37

Scuola: il niente che ci portiamo in classe
«Quando la vita non ha senso come può averne uno l’insegnamento?». Il filosofo francese Vergely smaschera una cultura che ha messo in cattedra la depressione esistenziale di docenti e alunni

aula_tipoAll’inizio del XX secolo, Freud ha constatato i danni che poteva causare un’educazione autoritaria. Secondo lui, il senso di colpa, origine dell’odio di sé e di numerose nevrosi, deriva da una disciplina religiosa troppo severa, troppo ascetica, o ancora da una morale laica fondata sul merito e troppo costrittiva. Per evitare simili traumi, si passò da un estremo all’altro, inventando un nuovo modello di educazione fondato sull’allievo, sui suoi tempi, sulla libera espressione, non repressa e senza riserbo, dei suoi desideri, sull’assenza di disciplina e di autorità. Non traumatizzare il bambino: questa fu la parola d’ordine della nuova filosofia educativa, che fece furore specialmente al di là dell’Atlantico. In un film intitolato Passe ton bac d’abord, un professore di filosofia si dà come obiettivo non quello di educare, ma di “diseducare” i suoi allievi. Non desidera più che imparino, ma che “disimparino”, ritenendo che quelli che una prima educazione ha deformato debbano essere “rieducati”. Si ritrova una simile visione delle cose in un film che ha conosciuto un immenso successo, L’attimo fuggente, in cui un giovane professore cerca di praticare il contrario di un’educazione autoritaria.

Diseducare, disimparare, mettere l’allievo al centro di ogni insegnamento gli consente di esprimersi a suo piacimento, di rifiutare l’autorità e la disciplina. Questi nuovi modi di insegnare si sono imposti. Tuttavia, senza i risultati sperati. I loro promotori non pensavano di essere presi alla lettera. Non si è passati dall’autoritarismo all’assenza di autoritarismo, ma ad un nuovo autoritarismo. L’eroe di L’attimo fuggente, il giovane professore, seguace dei nuovi metodi pedagogici, non è liberale. Per liberare i suoi allievi, si mostra autoritario e vuole emanciparli con la forza. Alla fine, uno dei suoi studenti, preso tra due fuochi, si suicida. Non facciamoci ingannare. L’assenza di disciplina e di autorità non risolve la questione della violenza e del desiderio di dominio, ma la sposta. Chi rifiuta qualsiasi autorità vive nell’ossessione dell’autorità. Vede violenza dappertutto e colpevolizza in un altro modo, in nome della tolleranza. Peraltro, una strana concezione dell’uomo accompagna questo approccio anti-autoritario. L’essere umano si educa superando la propria animalità e non vegetando. L’idea di elevare l’uomo è stata percepita come la fonte di regole repressive, di umiliazioni e di una vergogna legata al corpo. Si è, dunque, messo in opposizione l’uomo all’animale, il corpo all’anima e l’inconscio al conscio, auspicando la scomparsa del concetto di uomo, di anima e di coscienza. Così è stato concepito il progetto di un’educazione fondata essenzialmente sulla spontaneità del corpo e sull’espressione dell’inconscio.
Per comprendere la crisi dell’educazione oggi, bisogna rendersi conto che la sua origine è di natura morale. La cultura contemporanea è contrassegnata dalla «vittimizzazione». Gran parte della società attuale si crede vittima di una repressione, pensa che la vita sia cattiva e che le sofferenze sopportate derivino da un ideale di vita troppo elevato, troppo “elitista”. Più in generale, la sua visione del mondo è pessimistica. Volendo trattare l’uomo come un uomo e non come un animale, e parlare alla sua coscienza e non ai suoi istinti, lo si offende, lo si umilia. Non bisogna sottovalutare il diffuso clima depressivo, che in parte spiega le nostre difficoltà in materia di educazione. Per imparare, bisogna amare la vita. Senza amore per la vita, non si ha molto il desiderio di imparare. Tuttavia la vita non è amata, come dimostra il clima di lamento che regna nella nostra società. Non si è più contenti di vivere. Quando un giornalista conclude un articolo scrivendo che «Dio ha fallito», uno scrittore come Cioran riassume la condizione umana intitolando una delle sue opere L’inconveniente di essere nati. Si potrebbe riderne, se ridesse anche l’autore stesso, ma è serio. Questa disperazione chiarisce la crisi dell’insegnamento. Come insegnare, quando l’immagine che si ha della vita è quella del fallimento, dell’odio, dell’amarezza e del non-amore di sé? È assolutamente impossibile. Il nostro essere interiore è diviso. Si cerca di insegnare, pur essendo convinti che la vita non ha nulla da insegnarci. A cosa serve aggrapparsi con una mano al ramo dell’insegnamento su cui si è seduti, mentre lo si sta segando con l’altra? Si parla molto dell’insuccesso scolastico. La sua origine è di natura morale. Ci si scontra con l’insuccesso perché il senso di fallimento ci domina. Buona parte degli alunni non sa perché impara e molti insegnanti non sanno perché insegnano. Non è mancanza di un progetto, ma mancanza di coscienza e di visione dell’uomo. Quando la vita non ha senso, come può averne uno l’insegnamento? Si raccoglie ciò che si è seminato. Partendo dal niente, si trova il niente. A chi sostiene che l’uomo non può costruire niente senza nutrire un alto ideale della vita, si obietta che bisogna ritornare sulla terra e abbandonare i grandi ideali. Si aggiunge poi che è meglio il dubbio, la critica, il pessimismo rispetto allo slancio e alla fiducia. Ma verifichiamolo: il dubbio e il pessimismo non rendono l’uomo lucido. Al contrario. Il mondo che dispera di tutto è lo stesso che crede ingenuamente in un certo numero di utopie. Spera innocentemente nella scienza e nella politica, perché dispera della vita e della coscienza. La sua disperazione nutre e ravviva la speranza di una “Grande Sera” del mondo, l’attesa di un’apocalisse, il desiderio di una rivoluzione totale e immediata.

Si vive in attesa dell’istruzione ideale
Invece di fare affidamento su ciò che è, ci si affida a ciò che potrebbe essere. Più si vive in ciò che potrebbe essere, più si soffre a causa di ciò che è. Più si soffre a causa di ciò che è, più si precipita verso ciò che potrebbe essere. Così si vive in attesa dell’istruzione ideale, disperando dell’istruzione che è. Invece di vivere la domanda di senso nei termini di un dialogo tra la costruzione di sé e quella del mondo che ci circonda, la si vive nel doppio registro della disperazione e dell’utopia. La scuola è ciò da cui bisogna uscire invece del luogo in cui entrare, essendo altrove l’essenziale, nel mercato del lavoro, nella società, nella vita quotidiana. Tuttavia, si ci aspetta tutto da lei, in particolare la possibilità di superare le disuguaglianze, cause di sofferenze, grazie al conseguimento di lauree e diplomi, motori dell’ascesa sociale. Alcuni anni fa, intervistata da un giornalista della televisione, una giovane insegnante non esitò a dichiarare: «La scuola non è fatta per sapere. Se è fatta per fornire un sapere, restituisco la mia divisa». Che cosa penseremmo di un medico che sostiene che la medicina non sia fatta per curare? Probabilmente che è irresponsabile. E avremmo ragione. Il discorso della giovane insegnante si inserisce molto bene nel contesto attuale, poiché dà l’impressione di essere umano. In realtà è meno vero di quanto sembri.
Oggi esiste una strana ambivalenza a proposito dell’umano e soprattutto a proposito della scienza e del sapere. Da un lato, si colloca l’umano fuori dal campo del sapere, della riflessione, della ragione e lo si pone nella sfera dell’esperienza sensibile, dell’emozione, dell’istinto, dell’immediato. Ma, dall’altro, si sogna un umano capace di controllare e di dominare, che abbia previsto tutto, onnipotente, onnisciente; al tempo stesso tutto e al di là di tutto. Diffidiamo di una scuola che non è fatta per fornire il sapere. Essa dà l’impressione di aspirare all’umano, ma prepara alla dittatura e al trionfo della tecnocrazia. Ricordiamoci del nazismo: cominciò col celebrare il ritorno alla natura, all’autenticità e promise il superamento della tecnica e della civiltà, ma poi fece trionfare la tecnica, il potere, lo Stato e la guerra. Il duplice discorso che oggi si sente, o contro o in favore della scuola, è potenzialmente dittatoriale. Esso mira a controllare tutto attraverso la scuola, in maniera utopica, cosicché l’uomo non controlli più niente, possa abbandonarsi ai propri istinti e vincere così la sofferenza.
È possibile uscire da questa situazione. Per farlo, dobbiamo capirne le cause profonde. Si fa fare alla scuola un discorso che non è il suo. La scuola non parla più il linguaggio del sapere, ma dell’umano, perché, nel profondo, parla quello della disperazione e della rivolta. La nostra società vive in un’esasperazione legata ad un clima depressivo. Non si vuole più affrontare un percorso graduale di costruzione di sé, si pensa in modo pessimistico come una vittima, in termini di lamento e di ribellione. Si vuole il grande cambiamento. Subito. Messo a punto da pensatori pessimisti, utilizzato da politici demagoghi, veicolato dai media, questo discorso domina la società. E sostiene che a scuola non c’è posto per il sapere. Il pessimismo utopico non ha più la pazienza di aspettare, vuole la fine della storia.

Il bisogno di costruire
In tale contesto, è importante e urgente tornare ad una educazione dell’uomo orientata al significato e allo scopo dell’esistenza. È importante ricordare e spiegare che la vita non è assurda, né insensata. Vivere senza ragione né scopo non è mai stato il miglior modo di vivere, non è che una forma di erranza. L’esistenza ha un senso, è una costruzione. Non è uno scandalo prenderne coscienza, così come non lo è ricordare che l’uomo è dotato di una coscienza. Tutto non è programmato in anticipo, certamente. Ma tutto non è nemmeno un caso. Un mondo cieco è tanto autoritario, se non di più, quanto un mondo chiuso dentro schemi prestabiliti. Essere orientati significa sapere dove si sta andando. C’è una direzione quando il senso non è più soltanto ricevuto dall’esterno, ma quando si rivela dall’interno. Colui che è orientato dall’interno persegue non uno scopo individuale lineare, ma uno scopo superiore, più elevato. La vera vocazione dell’uomo non è imposta da un’entità impersonale né determinata dai suoi capricci. È fissata dalla verticalità della sua esistenza. Il grande antropologo André Leroi-Gourhan sostiene che l’uomo diventa uomo quando acquisisce una posizione eretta e si alza in piedi. È camminando su due gambe che libera la mano e il viso, il gesto e la parola. L’uomo si manifesta nella verticalità, perché vivere significa alzarsi, tendere verso l’alto, crescere e aprirsi come l’albero che distende i suoi rami. È esaltante scoprire il dinamismo dell’esistenza, così come è straordinario incontrare tutto ciò che essa racchiude. È prendendo consapevolezza di questo, con stupore e meraviglia, che l’esistenza diventa appassionante e l’uomo scopre in essa un senso. La vita è in espansione, proprio come l’universo. Da essa scaturisce uno slancio, un dinamismo, un respiro, un’immaginazione, una memoria, una coscienza, un genio che portano l’uomo sempre più lontano, sempre più in alto e sempre più in profondità. Parlando concretamente, è in rapporto all’impegno che si può misurare il significato. Un insegnante deve impegnarsi mettendo in gioco se stesso, essere un veicolo della conoscenza e del profondo desiderio di imparare, di sapere e di capire. Questo fa di lui un “enseigneur”, un maestro e non semplicemente un insegnante: egli ridà vita e generosità all’esistenza e alla tradizione. Eleva gli uomini e le cose invece di ridurli e spingerli verso il basso. E così, fa di coloro che ha la responsabilità di istruire esseri degni della propria vocazione e non degli sconfitti.
Ricordando questo, si diventa in grado di dare alla scuola gli strumenti di cui ha bisogno. Questi risiedono nella scuola stessa, negli insegnanti, in una visione chiara dell’esistenza, negli alunni e nella volontà di diventare pienamente uomini. Così, troveremo nella persona umana stessa le risorse necessarie per superare la crisi attuale. Per questo, dobbiamo restituire il loro vero significato a parole belle come istruzione, educazione, insegnamento e comprendere, preservare e vivificare i legami profondi che le uniscono.

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