Mi fu rivolta la parola del Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”.
Risposi: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane”. Ma il Signore mi disse: “Non dire: sono giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che ti ordinerò. Non temerli perché io sono con te per proteggerti”.
(…)
“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno, ognuno si fa beffe di me! Quando parlo, devo gridare, devo proclamare: “Violenza, oppressione!”. Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”.
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo. Sentivo le insinuazioni di molti: “Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo!”. Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: “Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta”. Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile” (Ger 20,7-11)
Un bambino e i suoi sogni
Volete far ridere Dio? ParlateGli dei vostri sogni.
Sui banchi di scuola, alunno attento, rispettoso e magari un po’ scomposto, il piccolo Geremia – tra un appunto scarabocchiato e un foglietto gettato con la cerbottana – amava sognare. Oltre il velo di quella tenda adibita a scuola, il profumo dei prati in fiore, il mistero di un terra fecondata da gocce di pioggia, il silenzio accattivante di quelle file di beduini che agganciavano i loro cammelli alle rotte del cielo.
La maestra spiegava, i compagni scrivevano, Geremia disegnava sogni nel pensiero. La musica era il suo forte: con il flauto incavato in una canna di bambù metteva in musica le sue frasi d’amore, su quelle note appoggiava i suoi sogni innamorati, su quella melodia raccontava la sua storia.
Sentiva parlare del mercato di Gerusalemme, delle mura di Gerico, del deserto di Giuda e pensava: “Da grande mi nasconderò in qualche angolo delle piazze e farò innamorare la gente sulle note del mio flauto”.
“Sogna, ragazzo. Sogna” – gli direbbe volentieri il Vecchioni cantautore. Un piccolissimo difetto rimprovera sempre alla sua mamma, magari davanti ad un piatto di legumi e di pane azzimo… Quel rossore sul volto, quel senso di vergogna, quella timidezza che lo fa sentire a disagio quando parla davanti ai suoi compagni.
Sul retro del suo diario un giorno scrisse: “L’unico mestiere che non farei mai è l’oratore”. La maestra non lo sapeva, Qualcun altro sì, però.
Piccolo Geremia, è fatta. Alzati, metti il tuo flauto nella fodera, i sogni lasciali scritti sul banco, esci da quella piccola tenda e fermati sulla soglia.
Tu, che oratore non l’avresti mai fatto, sarai profeta di un Dio che non ti lascerà mai più in pace fino al tramonto della tua vita.
Non piangere, Geremia. Ma soprattutto non azzardarti di dire: “Sono troppo giovane”.
Proprio per questo quell’Uomo ti ha puntato.
Un uomo e il pericolo della sua “prima volta”
Pensa! Tu andresti a farti operare da un uomo che per la prima volta indossa un vestito da chirurgo e non sa nemmeno cosa significa operare? Andresti a farti togliere una carie da un contadino solo perché vedi che ha in mano il trapano di un dentista? Daresti in appalto la realizzazione di una villa ad un ragazzo iscritto al primo anno di geometri? Sceglieresti come segretario della tua industria una persona analfabeta?
Perché ti vuoi rivolgere ad un giovane? Questo il senso dell’obiezione di Geremia alla voce di Dio che l’ha chiamato. Non ha mai preso la parola davanti agli altri e tutto d’un colpo dev’essere addirittura la voce di Dio in mezzo al mondo. Dice Geremia: “Come faccio, Signore? Sono giovane e non so parlare”. L’uomo avverte, di fronte alla chiamata e al compito che gli viene proposto, tutta la propria debolezza, una sproporzione tra lo strumento che Dio sceglie (non potrebbe chiamarne di migliori?) e lo scopo che pretende di raggiungere.
Al primo posto l’affermazione dell’assoluta libertà dell’iniziativa di Dio. I profeti d’Israele sono tutti carismatici, non sono cresciuti nelle scuole di profeti. Ma gratuità non significa improvvisazione, bensì continuità e fedeltà. La chiamata da parte di Dio non è una decisione improvvisa, ma la conclusione di una lunga storia d’amore studiata sin nei minimi particolari. Certo, il profeta sperimenta quasi un’irruzione inaspettata, ma questo avviene perché l’uomo è chiuso nel piccolo orizzonte della sua storia. Infatti, il Signore risponde: “Non temere, perché io sono con te per liberarti”. Dio non arretra di fronte alla debolezza dell’uomo, sembra addirittura esigerla, perché è proprio nella debolezza dell’uomo che l’azione di Dio appare in tutta la sua potenza. “Prima di formarti nel grembo, ti avevo consacrato” (Ger 1,5). Dio qui usa il verbo “formare” che è quello materiale con cui un vasaio produce i suoi oggetti, verbo di mani in pasta. Dio non è solo artefice, è anche artigiano. Ancor prima di maneggiare la materia ha un progetto per lei: “Ti ho conosciuto” – dice –non solo per dichiarargli il suo primato, ma anche per illustrare la sua identità: ho conosciuto te, ho visitato la tua preziosa unicità, mi sono innamorato delle tue debolezze. Scandaloso!
Nessun profeta ha vissuto così profondamente come Geremia il duplice aspetto di una fede che è sempre lacerante: da una parte la fedeltà a Dio che affida una parola di crisi. Dall’altra una piena solidarietà e un grande amore al popolo che tuttavia occorre minacciare.
Riserva di caccia: “Vietato sparare sui sognatori”
Geremia è un uomo sempre contro, impopolare, costretto a dire cose che nessuno voleva sentire, contestato da altri profeti (falsi) che invece dicevano parole più gradite e ragionevoli. In quegli anni sarà la coscienza critica, calpestata e inascoltata della nazione. La sua sarà una parola scomoda, bruciante, aspra; colpirà gli inerti, gli illusi, tenterà di spogliare gli ebrei dai loro miti nazionalistici e religiosi, mostrando il baratro verso cui sono avviati e che non vogliono vedere. Il popolo è distratto e illuso. Egli non può tacere, ma come una sentinella deve gettare l’allarme. Ogni credente deve partecipare al dramma del suo tempo e deve parlare, anche se gli ambienti sono opachi e sordi. Gli ultimi anni della sua vita si perdono nell’oscurità. Sappiamo che dopo la conquista di Gerusalemme rifiutò di andare a Babilonia e rimase in Palestina. Più tardi fu trascinato in Egitto. L’ultima sua sofferenza fu quella di essere considerato dai Babilonesi conquistatori un collaborazionista, uno dei loro. Fu incompreso fino all’ultimo. Ma nessuno contrarietà riuscì mai a far tacere il profeta. Era pronto a morire, ma mai disposto tacere. Egli fu chiamato a rifare personalmente l’itinerario spirituale del popolo eletto: non la strada che Israele ha percorso, ma quella che avrebbe dovuto percorrere. E’ stato il banco di prova dell’uomo nuovo.
Il libro di Geremia è costellato di confessioni nelle quali il profeta ci apre il suo intimo. E’ una lettura preziosa perché veniamo a conoscere le intime sofferenze, le delusioni, le crisi di un autentico uomo di fede. Sono pagine nate dalla vita. Il profeta sperimenta l’emarginazione da parte degli uomini e – cosa ancor più sconvolgente, il “silenzio” di Dio. Una duplice solitudine; di fronte al popolo (che ama profondamente) e di fronte a Dio (per servire il quale ha lasciato tutto). Dentro questa solitudine e isolamento – in cui l’hanno relegato i suoi concittadini – nasce il dolore di Geremia: “Si guardi ognuno dal suo amico, non ci si fidi neppure del fratello, perché il fratello inganno il fratello e l’amico diffama l’amico” (9,3).
Nessuna meraviglia se in questa situazione sorprendiamo il profeta a interrogarsi sulla sua vocazione e a lamentarsi con il suo Dio: “Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre.” “Sedotto” – dice -. Cioè l’ha attratto con un fascino irrazionale come si circuisce un inesperto con false promesse perché stupidamente acconsenta alle manovre di chi è più astuto. La preghiera de sofferente conosce una sincerità che rasenta quasi la bestemmia, perché ora Dio viene accusato di bestemmia e di vigliaccheria. “E’ un urlo che vuol far sapere che io esisto; – commentava Pier Paolo Pasolini – E’ un urlo in cui in fondo all’ansia si sente qualche vile accento di speranza, un urlo destinato a durare oltre ogni possibile fine”. “Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno, ognuno si fa beffe di me”. Non che il profeta fosse pentito della scelta fatta. La fedeltà alla sua vocazione e l’attaccamento al proprio Dio non l’hanno mai seriamente abbandonato. Più semplicemente, nei momenti di maggior abbattimento, il profeta avrebbe desiderato un po’ di comprensione almeno da parte del suo Dio. Ma anche da lì sembra venire la solitudine. E’ lo sfogo di un uomo che ha messo in gioco tutto se stesso, che paga, che vorrebbe che almeno Dio fosse dalla sua parte.
Il profeta è quasi disperato di fronte alla miseria in cui è piombato il corpo del suo popolo. Attorno ad esso si affollano solamente falsi medici che affermano superficialmente: “Tutto bene, anzi molto bene. Eppure bene non va” (6,14.8,11)
Di fronte alle derisioni Geremia è solo e impotente, disarmato. Il profeta ha creduto alla promessa udita nel momento della vocazione, ciò che è accaduto sembra smentire quella promessa. Dio sembra non essere di parola. Alla luce di questa situazione comprendiamo la forte espressione del profeta: “Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti” (15,18) Ci sono torrenti che alle piogge invernali sono gonfi di acque abbondanti, ma poi d’estate si disseccano: non ci si può fidare di loro. Nel momento del caldo o della sete ti abbandonano. Così sembra essere al profeta la promessa di Dio. Evidentemente Geremia, come don Marco, si era immaginato in modo molto diverso la presenza di Dio al suo fianco. E qui sta la “purificazione” a cui Dio vuol condurre questo profeta. La promessa di Dio e la sua fedeltà sono diverse da come il profeta le pensava: occorre un nuovo modo di pensare Dio. Non è Dio che è infedele, non è lui che ha cambiato idea, ma è Geremia che ha sbagliato a capire: “Se tu ritornassi a me – risponde infatti il Signore al suo profeta che si lamenta – io ti riprenderò e starai alla mia presenza” (15,19).
Lucido più che disfattista
Discute con il suo Dio e vorrebbe smettere tutto: “Pensavo: non mi ricorderò più di lui, non parlerò più in suo nome” (20,9). E’ il vertice più disperato che tocca il profeta di Anatot. Le ultime battute saranno ancora più aspre. Una maledizione radicale che colpisce la vita alla radice stessa. Una preghiera sconcertante che attesta una verità: Dio non si scandalizza quando il sofferente protesta, si dispera e lancia il suo ultimo grido. Ma poi scopre nel profondo della sua anima una fedeltà che non gli permette di smettere, un amore alla Parola che nessuna smentita riesce a distruggere: “Ma nel mio cuore c’era un fuoco ardente. Mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (20,9b). E riprende di nuovo la strada. Non si esce mai indenni da un’autentica esperienza di Dio: c’è gioia suprema, ma anche sofferenza disumana.
Come tutti i profeti, Geremia sperimentò nel profondo – pur nella sofferenza, nel rifiuto e nell’abbandono – il miracolo di una speranza indistruttibile e di un’inspiegabile serenità.
Geremia non è un disfattista, è semplicemente un uomo lucido. Egli vede che il peccato ha minato ogni cosa, stravolto tutte le istituzioni. Israele ha saputo persino rovinare il perdono di Dio, la sua pazienza e fedeltà. Tant’è vero che malgrado le ripetute minacce del Signore, il popolo ha smesso di avere paura. Basta un po’ di pentimento – dice la gente – e Dio è sempre pronto a perdonare: non è forse il Dio fedele? Così la fede nella bontà di Dio è rovinata. Non è più il peccato dei deboli (che merita sempre il perdono), ma è il peccato dei furbi, e questo non merita il perdono. Anziché uno stimolo al bene, la fiducia nella fedeltà di Dio si è tramutata in una falsa sicurezza che spinge al male. E’ una cosa che Dio non può sopportare. Dio è così costretto a dimostrare che la sua pazienza ha un limite, che il suo perdono non passa sopra alla giustizia. Dio, alla fine, irrompe con il suo giudizio che Geremia dipinge con immagini forti, intuendo la sorte che tra poco capiterà a Gerusalemme, travolta dalle armate babilonesi. Il solito buon Dio di una certa morale borghese viene spazzato via per lasciare il posto al Dio esigente e giusto. Un Dio che si deve anche temere, oltre che amare. Scrisse un teologo: “L’uomo che non ha mai tentato di fuggire non ha mai sperimentato il Dio che è veramente Dio” (Paul Tillich).
Un capriolo e il suo profumo
Racconta il filosofo danese Soren Kierkegaard la fiaba del capriolo che cerca disperatamente un muschio di cui l’ha stordito il profumo. Sfinito nella ricerca. Prima di morire, si lecca il petto e sente lì quel profumo affascinante: “Non cercare fuori di te il profumo di Dio, per perire nella giungla della vita. Non cessare di cercarlo dentro di te e vedrai che lo troverai”.
Ascolta: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà”. Il deserto, luogo della solitudine e dell’essenzialità, ri-torna ad essere il crocevia dell’incontro tra Dio e l’uomo. Israele, scampato alle persecuzioni e alle oppressioni, marcia verso la sua terra e vede profilarsi da lontano il volto di Dio. Appena sono di fronte e si fissano negli occhi, il Signore pronuncia una dolcissima dichiarazione d’amore: “Ti ho amato di amore eterno”. Non ci sono ne spiegazioni, ne recriminazioni. Perché – come scriveva Andrè Fossard – “di tutte le cose umane l’amore è la sola che non voglia spiegazioni. Gli amanti che si spiegano sono quelli che stanno per lasciarsi”.
Geremia, il simbolo di una giovinezza denigrata dagli uomini, ricercata da Dio. Vi ricordate!? Per fare il tavolo ci vuole il legno; per fare il legno ci vuole l’albero; per fare l’albero ci vuole il seme; per fare il seme ci vuole il frutto; per fare il frutto ci vuole il fiore. Per fare il tavolo ci vuole un fiore. Per fare la vita ci vuole il fiore, e il fiore è il simbolo della bellezza. Ragazzi, Geremia insegna a scegliere la vita. A tutti i costi. Amate le cose pulite, belle: la poesia, il sogno, la fantasia. Benedite il Signore che vi da la possibilità di viaggiare senza biglietto, gratuitamente, lungo i meridiani e i paralleli della vostra vita. Amate la vita, scegliete per la vita.
Se v’imbatterete nella fatica, fate banda con quell’uomo!
Geremia non è stato un perdente, è stato un “furbo” perché ha intuito che se ci si mette “in cooperativa” con Dio i conti tornano sempre.