Attendi: un dono, una presenza. Poi quel dono, quella presenza, un giorno magari ti arrivano, giusto sotto-casa: hanno mantenuto la promessa, la parola. Eccole! Eppure, se ci pensi, non è (ancora) tutto: non basta averlo atteso, vedere l’oggetto, la persona attesa. E’ necessario accettarlo! Perchè un regalo si può anche respingere: “Pensavo fosse tutta un’altra cosa!” (Soddisfatto o rimborsato) Anche le persone si possono rifiutare: “Pensavo fossi tu quella/o giusto, invece no. Amen!” Di fronte a qualcosa che accade, ci sono sempre due scelte: si oppure no. Ce n’è anche una terza, a dir la verità, che va per la maggiore: non scegliere. Siccome tante volte scegliamo di non scegliere, allora restiamo comodamente convinti che siano le impronte digitali che indicano al mondo chi siamo; oppure che sia il DNA che ci fa capire perchè siamo così diversi gli uni dagli altri; oppure il timbro della voce che ci differenzia. Non ci accorgiamo che ciò che ci differenzia veramente, rendendoci unici, sono le nostre scelte. Mi piace pensare che al mondo ci siano tre tipologie di persone: quelli che fanno accadere le cose, quelli che guardano le cose accadere, quelli che si chiedono perchè le cose siano accadute. Costi quel che costi, siccome sono io a decidere le traiettorie della mia vita, mi piace stare tra quelli del primo gruppo. “Ma come hai fatto a sbagliare completamente scelta? Sei proprio un ingenuo” potranno dirmi. Magari avranno ragione, ma saranno comunque le loro ragioni, non le mie ragioni: le scelte giungono dall’esperienza e l’esperienza viene dalle scelte sbagliate. Tutto (ri)torna.
Natale, alla fine dei conti, è scegliere da che parte stare. Siccome scegliere è necessario – tutta la vita è una scelta: s’inizia con “Ciuccio o capezzolo?” e si finisce con “Di quercia o di abete?” – possiamo passare la vita a farci dire dal mondo chi siamo: sani di mente o pazzi, vittime o eroi, a lasciare che sia il nostro passato a decidere il nostro futuro. Oppure possiamo scegliere da noi, (re)inventandoci. Giorni fa, coccolando le mie due nipotine-gemelline, pensavo che soltanto un idiota potrebbe avere paura di loro: non hanno la forza necessaria per farti del male, con le loro manine non possono rubarti nulla, i loro calci somigliano a delle carezze. Però, signori, i loro sguardi sono inumani, disumani, non sono umani: hanno la forza d’una tempesta marina, sono cavalloni infuriati. Hanno occhi da investigatori di coscienza, è come se avessero sempre i tergicristalli accesi da quanto ti spogliano, rubano, rigano, cesellano. Immagino sia questa la novità del Gesùbambino: il suo sguardo. A noi non piace essere guardati, nonostante diciamo di adorare d’essere guardati. A noi piace essere visti, notati, squadrati. Non guardati, però: chi ci guarda, potrebbe farlo in una maniera tale da risvegliare in noi l’immagine più sincera di chi siamo (non chi vorremmo mostrare di essere). Certi sguardi sono annunci di lavori in corso: tutto da rifare, ricominciamo! Mai avresti immaginato che qualcuno ti guardasse così! Hai passato una vita a sentirti dire che non vali, che sei un nulla, sfigato, da TSO, da manicomio e tu, a forza di sentirtelo dire, hai finito per credere di essere davvero così. Poi, un giorno, capita che uno ti guardi in maniera diversa: t’accorgi di valere di più. Quel giorno scegli d’essere tu chi sei, di smetterla di essere quello “degli altri”. Quel giorno, tu non ti accorgi, ma è Natale (anche se capita a ferragosto, in un giorno brumoso di marzo). È facile dire: trova se stesso! Quanto ci si spaventa, però, quando accade per davvero!
Il giorno che ho visto entrare dal cancello di casa nostra la macchina nella quale c’erano dentro Emma&Ginevra, sono scoppiato a piangere: non ricordo, a memoria, quale fosse stata l’ultima volta che mi era capitato. Capivo, mentre entravano dal cancello, che da quell’istante la vita di tutti noi non sarebbe più rimasta la stessa: qualcosa di nuovo stava accadendo, stava cambiando tutto. Quando ho aperto la porta della macchina, penso di essermi avvicinato (come mai prima) a quello che hanno visto i pastori la notte di Betlemme: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». Non avevo mai sentito il cuore battere così. Le ho prese in braccio, ero tremante dalla paura di non saperle tenere, le ho baciate: quel volto bambino è stato lo spettacolo più bello che i miei occhi abbiano mai veduto. Loro due! Poi, però, penso a quando (ri)alzo l’Ostia a messa: anche allora prendo in mano un Bambino, diventato così Gigante da nascondersi dentro un pezzettino di pane. E realizzo che, tra le mani, ho Gesù Cristo in persona: mi colgono attimi di enorme inquietudine. Vorrei metterlo giù per troppa paura, ma ho paura che, senza più Lui, non mi rimanga nulla in mano. E allora me lo tengo stretto, anche se ho le mani sporche. Perchè, proprio perchè sono così, capisco che queste mani sono la stalla nella quale Cristo (ri)nasce. Una stalla è anche il cuore mio ma, a questo punto, il problema non è più mio, diventa suo. Perchè se tra tanti alberghi (tutti pieni) sceglie una stalla, la mia stalla (tutta vuota), significa che per nascere aveva bisogno di qualcuno che avesse un po’ fame di Lui. Nelle pance-piene non riusciva a fare breccia.
Ecco come mi piacerebbe, quest’anni, arrivare al giorno di Natale: come le mie nipotine che quando, di notte, hanno fame o paura, arriva la mamma Laura con il latte e sparisce anche la paura. Magari fossi così bambino anch’io con Dio.