Nella seconda domenica d’Avvento, prosegue la lettura dal profeta Isaia, che ci accompagnerà per l’intero tempo forte che stiamo vivendo. In questo brano, vediamo ipotizzare uno scenario sicuramente nuovo ed inedito, rispetto a quello che la storia ci consegna. Sembra quasi un auspicio: che l’Egitto possa conoscere il Signore. Rispetto alla storia del popolo d’Israele, sembra un’idea lontanissima: all’Egitto sono legati i brutti ricordi della schiavitù e delle umiliazioni sofferte, al tempo di Mosè. Guardando oltre, però, possiamo dire qualcosa di più. Innanzitutto, a livello storico, in Egitto ci sono le prime irradiazioni del cristianesimo, con Alessandria che ha rappresentato uno dei primi centri della nuova cultura, all’epoca dell’impero romano; ancora oggi, nella variante copta ortodossa, minoranza in Egitto come percentuale, i cristiani d‘Egitto sono, numericamente, il gruppo più rilevante, in termini assoluti, in tutto il Medio Oriente ed il Nord Africa.
Ogni conoscenza si rivela sempre essere un ri-conoscere, un avvicinamento di Dio verso l’uomo, affinché possa vedere più chiaramente ciò che esisteva ben prima. Se, infatti, Dio è eterno e fuori dal tempo, qualunque conoscenza potremo avere di Lui sarà sempre una qualche forma di riconoscimento, che avviene nel tempo e mai, in senso stretto, un’invenzione, quanto, piuttosto, una scoperta, cioè un trovare qualcosa che, però ci precede, perché è da sempre.
Il versetto 22 potrebbe risvegliare il marcionita quiescente in noi: com’è possibile pensare che sia Dio a ferire, oltre che a guarire? Un versetto molto simile è, del resto, rinvenibile nel libro del Deuteronomio (32, 39): «Io faccio morire e faccio vivere, ferisco e risano, e nessuno può liberare dalla mia mano». È interessante come, nel libro del Pentateuco, una simile notazione sia appaiata alla predicazione del monoteismo: «Ora vedete che io solo sono Dio e che non vi è altro dio accanto a me». Non si tratta di una minaccia, ma di una rassicurazione: ci sono io, penso io a te. Un esempio simile può essere ritrovato anche in Isaia 43, 1: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni». «Sei mio/a!» non è forse una frase molto apprezzata, tra innamorati? A meno che non ci sia del patologico, quel possesso annunciato, tra il serio ed il faceto, non comporta possessività, ma, al contrario, trasuda cura, attenzione, tenerezza, rispetto. È il proclama di chi ha il desiderio (e la concreta intenzione) di prendersi cura dell’amore con una premura persino superiore a quella che riserva a sé. È un po’ come affermare che quel tu che mi sta davanti non è solo qualcuno che amo, ma che dici anche qualcosa di più su di me. Come un vestito dice qualcosa di chi lo indossa. Tale è l’intimità di relazione che Dio reclama per sé. Appartenere a Dio è tutto il contrario della schiavitù, dal momento che la Scrittura afferma, piuttosto: “io ti ho riscattato”. Appartenere a Dio equivale a sperimentare la vera libertà, che è la libertà dell’amore.
In un’ottica di pedagogia divina, anche la frase (apparentemente) paradossale di un dio che ferisce, per poi risanare, consente di comprendere tutta l’ampiezza di quest’affermazione. È come un genitore, che strattona un bambino piccolo, strappandolo dal luogo in cui si stava dirigendo. Il bambino si offende, si spaventa, probabilmente si mette a piangere. Si sente come vittima di un’incredibile e incomprensibile ingiustizia. Non appena, però, il bambino si calma, il genitore ha modo di spiegarsi con quelle pazienza e chiarezza che la concitazione del momento precedente non avevano consentito. Non era possibile fare altrimenti: lo strattone era necessario per allontanare il bambino dal pericolo che stava sopraggiungendo, magari perché era in arrivo un’automobile a tutta velocità. Dopo la spiegazione, potrebbe essere che «’l modo ancor [l’]offende» (Inferno 5, 102), ma, in genere, dovrebbe aver compreso che il motivo dell’urgenza e della malagrazia erano esclusivamente il mantenimento della sua integrità personale. Così in fondo, avviene spesso anche con Dio: può darsi, cioè che decida di intervenire in modo risoluto nei nostri riguardi, permettendo un dolore, una sofferenza, una separazione, la fine di una relazione, ma sempre considerando che «Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non prepararne una più grande» (A. Manzoni).
Troviamo di nuovo Isaia, nel riferimento esplicito dell’inizio del Vangelo di Marco. Al contrario di Luca, infatti, Marco non inizia, raccontando l’infanzia di Cristo, ma partendo dal suo ministero (la predicazione pubblica, quelli che, a posteriori, risultano essere gli ultimi anni della sua vita). «Voce di uno che grida nel deserto» questa l’espressione, notoria, ripresa da Isaia 43. Non più un uomo, non più un profeta, sembra quasi dire. Solo la voce è rimasta. Quasi un’eco, che spera di arrivare fino al cuore dell’uomo. Tutto il resto è scomparso, nella semplificazione più assoluta. Solo la voce, con il suo messaggio. Quasi a richiamare, a propria volta, la voce primigenia, quel Verbo capace, con la sola pronuncia di un nome, di dare vita ad ogni cosa esistente sulla terra. Il messaggio qual è? Preparare la strada, dice. Una questione di edilizia, quindi? Forse, in un certo senso, sì. Niente avviene per caso. Niente ha luogo dall’oggi al domani. Ogni incontro esige una preparazione, quanto meno quel “minimo sindacale”, per comunicare, coi fatti, all’ospite: «Mi interessi, ci tengo a te e intendo onorare la tua presenza, offrendoti il meglio che ho». Ma come è possibile onorare degnamente il re del cielo, colui che possiede tutto, che ha dato vita a tutto, l’unico necessario ed indispensabile, che non ha bisogno di nulla e che comunica ad ogni essere l’esistenza?
Scrive, infatti, S. Agostino:
Se vuoi incontrare il giudice misericordioso, sii anche tu misericordioso prima che egli giunga. Perdona se qualcuno ti ha offeso, elargisci il superfluo. E da chi proviene quello che doni, se non da lui? Se tu dessi del tuo sarebbe un’elemosina, ma poiché dai del suo, non è che una restituzione! «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1 Cor 4, 7).
(S. Agostino, Commento al salmo 95)
Forse è in questo senso che, oggi più che mai, si fa urgente riscoprire le “rinunce d’Avvento”. Ci è forse difficile comprenderle, come si usava una volta, in quanto mortificazioni. Forse, riusciamo a meglio penetrarne l’importanza, tramite il concetto dell’autenticità. Non è Dio ad avere bisogno delle nostre rinunce. Siamo noi. Ci è necessario per guardare, finalmente, a noi stessi, senza le maschere che tendiamo ad indossare. Quella del giudizio degli altri. Quella del giudizio di noi stessi. Quella delle convenzioni sociali, a cui magari non crediamo, ma ci adeguiamo, un po’ come l’oroscopo quando pensiamo “non è vero, ma che male c’è se ci credo?”. L’eccentricità del Battista può colpire, impressionare, possiamo pure considerarla un eccesso. Rimane, però, un monito. All’inutilità delle sofisticazioni, di fronte alla ricerca dell’unico necessario. Che si rivela essere semplice (ma non: banale). Semplice, perché fa a meno del lusso, delle convenzioni, dell’ipocrisia. Semplice, perché è solo amore, senza confusione di risentimento. Ma non banale: perché un Dio disposto ad annientare Sé per il bene di un’umanità, ferita e confusa, incapace di comprendere il suo amore e, spesso, così concentrata in se stessa, da non cercarlo neppure, non è affatto banale, ma suscita – inevitabilmente – tanti interrogativi, a cui è giusto lasciare spazio.
Ma come lasciargli spazio, se la nostra vita è un’inutile sofisticazione? L’essenzialità a cui siamo chiamati è la via maestra per un’autenticità del nostro agire, affinché possa sempre più conformarsi all’agire lineare di Cristo.
Rif: Letture festive ambrosiane, nella seconda domenica di Avvento, anno C (Is 19, 18-24; Mc 1, 1-8)
Fonte immagine: pianetamamma