La prima lettura richiama quasi la scena di una grande battaglia, come la Battaglia del fosso di Helm, del celeberrimo romanzo di Tolkien, di cui i più ricordano l’epica trasposizione cinematografica. Storicamente, il riferimento alla deportazione di due tribù del popolo d’Israele, da parte di Babilonia. Nei versetti iniziali del capitolo (omessi dal brano liturgico) possiamo assistere ad uno strano invito, cioè quello di alzare la voce, per attirare i propri nemici. Il motivo è comprensibile solo proseguendo nella lettura: se parliamo di Signore degli eserciti comprendiamo perché è opportuno e non illogico gridare. È Dio stesso ad aver convocato, è un esercito santo, dunque, e, a capo, vi troviamo Dio stesso. Anche la guerra sarà santa, cioè, svolta, secondo il progetto di Dio. Di fronte a questa prospettiva, è possibile attuare una fiducia che va al di là dell’opportunità che suggerirebbe la realtà e la prudenza. È una lotta, senza quartiere, ma non una lotta senza significato. È una lotta, come, spesso, si dimostra lotta la nostra vita. Tendiamo ad oscurare pagine della Scrittura come questa; talvolta, addirittura, la sensibilità contemporanea tende ad edulcorarle, perché, al contrario, ci sembra di assistere alla manifestazione di una divinità pagana. Così non è: anche solo tramite una lettura metaforica, proprio tramite queste immagini, che possono essere così suggestivamente riprodotte su uno schermo, riusciamo a rappresentare situazione di difficoltà, di sopraffazione, di confusione, che, altrimenti, potrebbero rischiare di rimanere, in un certo senso, ineffabili.
Il brano di Isaia si conclude con qualcosa di molto simile ad una promessa: “Farò cessare la superbia dei protervi e umilierò l’orgoglio dei tiranni”. Quasi a ricordare che Dio, da sempre, pur nel rispetto dell’umano progredire nel tempo e nella storia, ha scelto, una volta per tutte, il proprio campo. Coi piccoli e con gli umili: con chi decide di rinunciare alla forza, affinché Dio possa essere la sua forza. In base a questa disposizione, diverranno secondari la forza fisica od il vigore della tempra, perché, nel momento in cui l’animo ha deciso di mettersi al servizio di Dio, ogni cosa sarà a Lui subordinata, nella solida certezza, che, da quel momento in poi, non sarà più un’avventura solitaria. Non è possibile che lo sia. Perché la fede richiede, sempre, di dipanarsi in un contesto comunitario. Non si tratta del mio dio personale, ma di quel Dio che, iniziata una storia d’amore col Popolo eletto, ha scelto, non soltanto di rimanervi fedele nel tempo, al di là delle sue infedeltà, ma anche di allargare i confini della Tenda della Presenza a chi, fuori del popolo eletto secondo il sangue, ha aderito, per fede, alla stessa fede di Abramo.
Cristo, nel Vangelo, dà voce ad una riflessione, sulla caducità delle cose, che, quale prima quale dopo, sono portate ad essere consumate dal tempo e dalle intemperie, correndo il rischio id non lasciare traccia di sé. Tuttavia, l’espressione «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» dà luogo al fraintendimento che l’accento sia posto sugli accadimenti dei tempi ultimi. È un fraintendimento che – potremmo dire – perdura nei secoli, dal momento che i cristiani dei primi secoli si attendevano come imminente, una nuova venuta di Cristo, nella gloria, a cui sarebbe seguito un periodo di tempo di mille anni (pensiero millenarista, cui aderiva anche il vescovo Ireneo di Lione). L’attesa escatologica dei primi tempi può essere stata incentivata dalla difficoltà dovuta alle persecuzioni, o, forse, alle incomprensioni su alcune pericopi come quella successiva (Lc 21, 35), in cui l’arrivo di Cristo, più che imminente, è segnalato come improvviso . Tanto che, del resto, nel vangelo di Matteo (Mt 24, 43), la seconda venuta di Cristo è paragonata all’arrivo di un ladro: non perché il figlio dell’Uomo arrivi per rubare, naturalmente, ma come paragone rispetto alla modalità.
È interessante, in ogni caso, notare come il Maestro non si sottragga alla domanda, approfittando per un monito sempre valido alla prudenza nei confronti di chi si presenta come maestro o risolutore di problemi, perché, spesso, tali offerte di aiuto sono correlate da secondi fini quando non millantate al di là di reali competenze ed abilità.
Gregorio Magno sottolinea che “la guerra riguarda i nemici, le rivoluzioni i cittadini”: c’è dunque un riferimento a un pericolo proveniente dall’interno e ad un altro proveniente dall’esterno. Questo può essere letto in modo concreto, se guardiamo al Corpo di Cristo che è la Chiesa: sempre, in ogni periodo storico, essa si è trovata ad affrontare sia nemici interni che esterni. Ed è vero, che spesso, i nemici più ostici sono proprio quelli interni, in quanto nemici da cui non pensavi di doverti difendere. Come evidenzia anche Ambrogio, che, mentre ne dà un’interpretazione morale, identificando i nemici con passioni e conflitti della volontà, evidenzia appunto la maggiore pericolosità di quelli interni. Del resto, anche Cristo lo evidenzia, quando ammonisce che «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7, 15-16).
Ciò che accaduto, accade e accadrà: la Pasqua storica, la Pasqua personale e la Pasqua della Chiesa sono tra loro intimamente collegate. Il mistero del tempo le unisce e le pervade, perché, da una parte, i Vangeli attestano come, nel momento della Pasqua, il velo del tempio si squarciò, episodio che molti videro un oscuro presagio di quanto accade, in seguito, con la distruzione del tempio di Gerusalemme, da parte dei Romani (70 d.C.). È, del resto, vero che ciascuno di noi, ben prima del giudizio personale che attende ogni uomo, vive una propria pasqua personale: passa, cioè, attraverso momenti di sofferenza e di prova, in cui si rende conto con mano del lavorio del tempo e della caducità di ogni cosa esistente, della fragilità umana e delle relazioni e, spesso, può diventare motivo di gratitudine per Dio, fedele anche quando noi gli voltiamo le spalle e gli siamo infedeli, perché “non può rinnegare se stesso” (2Tm 2, 13). Un’analogia simile può valere anche per la Chiesa intera, di cui tutti i battezzati fanno parte e di cui Cristo è capo: la Chiesa è stata perseguitata ed è dovuta fuggire “da Gerusalemme verso i monti”. Sono passati duemila anni. Ancora tanti fratelli sono costretti a fuggire o a dare la vita, diventando quel “sangue di martiri” che diventa “seme di cristiani”.
Può sembrare fuori luogo e – persino – fuorviante interrogarsi sul destino ultimo dell’uomo (del proprio, come di ogni uomo in generale), eppure, forse, proprio quest’interrogativo – solo apparentemente astratto – potrebbe risiedere il segreto di una vita migliore: nella consapevolezza di un’eternità che, ora, è visibile solo nel frammento che ci è dato di contemplare, piano piano, ogni elemento può trovare la propria giusta collocazione. Alla luce dell’eternità, tante preoccupazioni svaniscono, mentre tutto quello che sembrava lontano, nel tempo e nello spazio, riprende la propria centralità, per illuminare di senso tutte quelle singole attività che riempiono le nostre giornate, ma che, senza un centro, rischiano di costituire solo frammenti sparsi di un tutto di cui non ci accorgiamo.
Rif: letture festive ambrosiane, nella I domenica di Avvento, anno C (LETTURA Is 13, 4-11; VANGELO Lc 21, 5-28)
Fonti: Catena Aurea – vangelo di Luca, capitoli 11- 24, Tommaso d’Aquino (ESD 2016)
Commento a Isaia, Tommaso d’Aquino (ESD 2021)
Fonte immagine: Andyblinston.com