Come avevamo precedentemente visto, nel popolo d’Israele non tutti erano accolti nella comunità, alla presenza di Dio, durante le funzioni religiose: prendendo ad esempio la situazione degli eunuchi, il riferimento può essere trovato nel libro del Deuteronomio (capitolo 23), oppure del Levitico (capitolo 21). Naturalmente, però, non erano gli unici ad essere esclusi dalle assemblee di preghiera.
La lettera di san Paolo agli Efesini ci ricorda, infatti, la forte differenza tra circoncisi ed incirconcisi: dal momento che la circoncisione segnava, per il popolo ebraico, il segno tangibile e concreto di quell’alleanza che Dio aveva – liberamente – d’intessere col popolo eletto, chiunque non ne facesse parte era in ogni caso tagliato fuori: non poteva, infatti, ritenersi pienamente appartenente alla comunità chi non si era ancora sottoposto a tale rito che, per gli ebrei osservanti avveniva, per tutti i maschi, nell’ottavo giorno di vita e a cui non si sottrasse lo stesso Cristo, a quanto ci racconta lo stesso Luca, nel suo vangelo (Lc 2, 21-40).
Sicuramente, la scelta di limitare la presenza alle assemblee in base a qualche criterio è pienamente ascrivibile alla mentalità dell’epoca, in particolare, tenendo conto della suddivisione in clan, valida per tutte le civiltà coeve al popolo d’Israele. L’identità da ritrovare e il gruppo di pari in cui rispecchiarsi è, del resto, un’esperienza comune ancora ai nostri giorni. Perché anche adesso, non solo ragazzi e adolescenti, ma anche gli adulti tendono a “selezionare” le persone da frequentare sulla base di un criterio che ha la pretesa di essere oggettivo (anche se, spesso, non lo è – o, comunque – non lo è completamente quanto vorremmo che fosse).
È da registrare perciò come un’innovazione che ha luogo già nell’Antico Testamento quella che vi proviene e che sembra già essere una (forte) attenuazione, rispetto ai precetti che troviamo nel Pentateuco. Isaia, infatti, si sofferma su due categorie, in particolare: gli eunuchi e gli stranieri. Non si rivolge a tutti gli eunuchi, indistintamente, ma a quelli «che osservano i miei sabati, preferiscono quello che a me piace e restano fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome più prezioso che figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» (Is 56, 5-6). Eunuco era un termine generico, tanto è vero che quando Cristo ne parla, specifica quali siano le principali varianti. Eunuco poteva essere un alto funzionario: la scelta di evirazione potrebbe – in questo caso – essere dovuta a motivazioni economiche e, conseguentemente, essere un’attenuante. Per estensione, con eunuco ci si riferiva a chiunque non potesse avere figli, per i più svariati motivi. In una società, come quella ebraica, che dava (e dà ancora adesso, tanto che molti ritengono che la prima forma di “guerra” che gli israeliani muovono ai palestinesi, sia proprio basata sulla demografia) molta importanza alla generazione di figli sani, robusti e, possibilmente, maschi, conduceva queste persone a vivere un’esistenza di esclusione di fronte alla comunità. Per costoro, le parole di Isaia sono balsamo di speranza. Il riferimento al nome, ad un nome eterno, basandosi sulla cultura ebraica (ma, in fondo, anche alla nostra) per cui il nome dice un’identità e a cui diamo il potere di rivelare qualcosa su di noi. Questo nome è “eterno” e “più prezioso di figli e figlie”: è la sottolineatura che l’appartenenza al popolo di Dio non è precostituita o legata unicamente al sangue della generazione di una discendenza, ma si gioca in quell’alleanza personale che Dio stringe con ciascuno di noi, nella sfida di adeguare la nostra volontà alla Sua, anche quando la comprensione vacilla e l’amore confidente necessità di prendere il sopravvento, per non cedere alla disperazione di fronte ai travagli della vita. L’altra categoria a cui si rivolge sono gli stranieri. Queste due categorie sono più legate di quanto sembri a prima vista. In entrambi i casi, infatti, si tratta di andare oltre un legame esclusivamente di sangue, ampliando gli orizzonti verso una fraternità che si basi su qualcosa di diverso dai legami di clan, che, da secoli e per secoli, hanno caratterizzato l’organizzazione in comunità degli uomini. In quell’altare in cui i sacrifici presentati dagli stranieri potranno essere graditi a Dio (Is 56, 7) possiamo vedere una prefigurazione di quello che san Paolo individua in Cristo stesso, visto come “colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne” (Ef 2, 14).
Nel Vangelo, vediamo, infine, un banchetto offerto con grande libertà (molti inviti), al quale però, ben pochi danno il proprio assenso. Tutti trovano scuse più o meno credibili, a cui appigliarsi, per non accogliere l’invito. C’è chi riferisce di un podere appena acquistato, che è necessario andare a vedere. In questo, san Gregorio di Nissa vede l’atteggiamento di dare la priorità alle sostanze terrene. Le cinque paia di buoi, accampate dal secondo personaggio del racconto evangelico, sono viste da Agostino come figura dei cinque sensi, quindi l’attaccamento all’esperienza sensibile. Il matrimonio, quale terza scusa addotta è più in generale assimilata ai piaceri della carne, sempre da Agostino; del resto, anche san Paolo vedeva nel matrimonio una “distrazione” rispetto alla prospettiva di potersi dedicare anima e corpo al servizio di Dio (1Cor 7, 32).
Non importa il come o il perché – o, meglio, è secondario. Dei molti invitati iniziali, non ne arriva neppure uno. Possiamo immaginare la delusione del padrone, condivisa dal servo, che ha perso il suo tempo, andando a riferire gli inviti.
È a questo punto che possiamo trovare una grande evoluzione, rispetto a quanto prescritto nella Legge. Ciechi, storpi, zoppi (a racchiudere qualunque deformità fisica) sono ammessi al banchetto, con i poveri (a indicare che nessun ceto sociale possa sentirsi escluso). Vi è persino di più: essendovi ancora posto, si arriva al paradosso che gli invitati sono, a questo punto, spinti ad entrare. Al contrario dei primi che se ne vanno con una qualunque scusa, il padrone sembra ora non fare più alcun caso a chi siano gli invitati. Oggi, diremmo – incurante di tutte le norme a contrasto della diffusione del contagio – invita a forza chiunque, cosicché entri e prenda parte al banchetto.
Sembra quasi non vi sia più alcuna precondizione, per partecipare al banchetto. Eppure, siamo lontanissimi da qualsivoglia “happy ending”, se leggiamo con attenzione. Il finale sembra, infatti, un monito, più che il felice esito di un banchetto. È l’annotazione che Dio non prevede “sostituti”. Che un posto vuoto non è altrimenti riempito, ma rimane un’occasione persa, di cui Dio è il primo a dispiacersi.
Al di là delle risoluzioni forse eccessivamente moraleggianti che possono essere tratte, l’interrogativo è più concreto di quanto appaia. Ai monaci è richiesta dedizione completa e totale a Dio. Non a tutti è richiesto di diventare monaci.
A tutti, però, Cristo richiede di diventare unificati, mettendo al centro della propria vita Dio, come roccia su cui costruire ogni altro dettaglio e come compagno di viaggio con cui entrare in società nella nostra vita.
Sicuramente, è una richiesta impegnativa, ma – al contempo – necessaria. Per Dio? No, per noi. Perché siamo noi a vivere male, nel momento in cui non riusciamo a fare di Dio il centro unificatore della nostra vita, ma preferiamo disperderla in mille frammenti, che, belli considerati singolarmente, rischiano di de-centrarci e farci vivere come schegge impazzite, preoccupate di riempire di cose il nostro tempo, senza però domandarci se le stiamo – anche – riempiendo di senso, in vista di quell’eternità in cui Dio ci attende.
Rif:
letture festive ambrosiane, nella II domenica dopo la Dedicazione, anno B (Is 56, 3-7; Ef 2, 11-22; Lc 14, 1a.15-24)
Catena Aurea, Tommaso d’Aquino (ESD, Bologna, 2006, trad.it. R. Coggi)
Fonte immagine: Pexels