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La prima lettura ci offre un episodio che s’inserisce, cronologicamente, in quelli che sono i primi tempi della Chiesa (dopo gli eventi pasquali). Come in un film, la telecamera di san Luca, nel capitolo ottavo, nel brano liturgico, decide di soffermarsi sulle vicissitudini che, in viaggio, incrocia il proprio cammino con quello di un eunuco etiope.

Entrambi, sono, dunque, in viaggio, per via. Entrambi stanno facendo uno spostamento. Mentre Filippo è a piedi, l’eunuco sta conducendo un  carro.

Filippo, però, non vi arriva per caso: un angelo gli dà questo suggerimento: di prendere la strada “che da Gerusalemme va a Gaza”, perché “è deserta”. Forse, di primo impatto, questa connotazione ci spiazza. Noi associamo il deserto all’insicurezza. In quel periodo storico, in cui i cristiani erano invisi agli ebrei di Gerusalemme, sapere che una strada era deserta, costituiva un via libera per poter uscire dai nascondigli, fare un bel respiro di sollievo e predisporsi, con una dose di serenità in più, alle quotidiane fatiche dell’apostolato.
L’indicazione pare errata, perché Filippo vede sopraggiungere qualcuno. Al contrario di altri brani, l’indicazione è piuttosto precisa: si tratta di «un Etìope, eunuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia, amministratore di tutti i suoi tesori, che era venuto per il culto a Gerusalemme» (At 8, 27). Nonostante i molti dettagli, non mancano i problemi, nell’individuare di chi si tratti. Perché manchi il nome è abbastanza chiaro, ricordando quanto detto in precedenza: i cristiani non erano ben visti e quest’uomo è un alto funzionario, quindi, un personaggio noto, non uno qualsiasi. Con eunuco, siamo portati a pensare agli evirati incaricati di fare da guardiani agli harem. La funzione pare tutt’altra, in questo caso, perché la stessa parola può anche indicare, genericamente, un funzionario e, come in questo caso, un funzionario con il compito prestigioso dell’amministrazione dei beni della sovrana; forse, proprio perché impossibilitati dal generare e dall’avere una famiglia, sembra ispirasse fiducia assoluta verso il signore, oltre ad innocuità e – per tale motivo – non era insolito ricoprissero ruoli importanti. Nell’Antico Testamento, gli eunuchi non sono visti di buon occhio: l’evirazione li rende “uomini mancati” (Dt 23, 1) e, del resto, qualunque deficit organico era considerato motivo per allontanare le persone dalla comunità, come possiamo leggere anche nel capitolo 21 del Levitico. Tale prescrizione si lega, probabilmente, a quelle legate ai sacrifici cultuali. Così come a Dio si offrono le “primizie” del bestiame o del raccolto (solo i primogeniti, maschi, del bestiame, oppure solo i vegetali migliori del raccolto), per analogia, il popolo d’Israele non considera degno di presentarsi davanti a Dio, per assistere al culto chiunque fosse considerato “non perfetto”.
Negli Atti, tuttavia, è detto esplicitamente che “era venuto per il culto a Gerusalemme, stava ritornando, seduto sul suo carro, e leggeva il profeta Isaia” (At8, 28). Che pensare, dunque? Che fosse venuto a Gerusalemme, ma senza prendere parte al culto della comunità? Se si può anche leggere, senza capire, com’è – del resto – attestato (più in là) nel testo, potrebbe essersi incuriosito del culto ebraico, che aveva conosciuto solo per affari di lavoro e, leggendo la Bibbia, essersi accostato ad un culto, che gli era – comunque – quanto meno nella forma comunitaria, precluso.

A questo punto, abbiamo un secondo incoraggiamento, che sospinge Filippo, di gran carriera (“corse”), verso l’incontro, che ha luogo con una domanda: «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8, 30 ).
A ben pensarci, è un po’ un’entrata a gamba tesa; non il massimo della diplomazia, insomma, accostarsi ad un perfetto sconosciuto ed iniziare il dialogo con lui, mettendone in discussione le capacità. A Filippo, però, va bene (e, del resto, il diacono è stato spinto all’incontro dallo Spirito: non viene difficile pensare che ci abbia pensato Lui a mettere una pezza per sopperire ai deficit umanissimi di quell’armata Brancaleone che erano i discepoli di Gesù); l’eunuco non è così permaloso, o, forse, lascia che a parlare sia la sua sete di verità, prorompendo in una risposta, che è un sospiro di desiderio: «E come potrei capire, se nessuno mi guida?» (At 8, 31)

Proprio qui potremmo situare, ipoteticamente, il centro dell’episodio, la svolta narrativa fondamentale. Prima, avremmo potuto aspettarci qualunque seguito. Ora no. Il desiderio è sbocciato, è sgorgato, con naturalezza, dalla gola dell’etiope, che ha vinto ogni vergogna ed ha dichiarato la sua mancanza. Quello che segue è un invito a salire: l’eunuco gli offre un passaggio, mentre Filippo si offre di schiudergli le porte della conoscenza, così da trasformare un testo poetico e pieno di fascino, ma oscuro e difficile da comprendere in immagini dotati di didascalia, che consentono di guardare con ammirazione, ma anche di comprendere quella lettura in cui era tanto assorto.

Il brano che il nostro Etiope stava leggendo era il capitolo 53 del libro di Isaia, in cui si descrive il “servo sofferente di Jahvè”, quello che l’esegesi cristiana considera unanimemente profezia della Passione di Cristo.
«Ti prego» dice l’eunuco a Filippo: una parola che tradisce tutta la trepida urgenza di comprensione che abita quel cuore, ormai reso inquieto dalla Parola di Dio. Questo dialogo dovrebbe rendere inquieto anche il nostro cuore. La Parola di Dio è urgente per l’uomo che ha fame di relazione (con Dio e con l’uomo). Non è secondario alla carità operativa di provvedere al “pane quotidiano”. Come si può mangiare e dar da mangiare il pane di frumento, lasciando però orfani di un orizzonte di senso e dell’incontro con Dio che, fattosi carne, si dona ogni giorno per noi?

«Dio, nostro salvatore […] vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tim 2, 4): non è un dettaglio irrilevante conoscere Cristo, la sua peculiarità e la sua pretesa divina. Non basta raccontarne il messaggio. Cristo non è (solo) un messaggio né  (solo) un invito a un’alta prestazione morale, pur essendo vero che nel Vangelo sono contenuti diversi messaggi e che, tramite la grazia, siamo chiamati a partecipare alla vita divina. Si tratta di un incontro che motiva ad altri incontri: nell’incontro col Figlio, siamo chiamati a prendere parte alla Comunione Trinitaria, che si dipana in quella relazione, comunitaria ed individuale, che si svolge all’interno della Chiesa, sposa di Cristo.

Di fronte alla verità che gli si schiude innanzi, come il bocciolo di una rosa in fiore, l’eunuco matura il desiderio del Battesimo, che, del resto, è proprio il sacramento che sancisce l’innesto nella comunità cristiana. Filippo, con una scioltezza che, forse (a fronte di tutta la burocrazia che ci accompagna in ogni scelta) gli invidiamo, non glielo rifiuta. E così, l’eunuco etiope, ricco di prestigio agli occhi della regina, ma impossibilitato all’ingresso nella comunità ebraica, entra invece a far parte della famiglia di Dio, dopo aver ricevuto l’annuncio che Cristo, il servo sofferente di Jahvè, non solo ha patito ed è morto, ma è risorto, aprendoci la strada per il cielo

È proprio nel finale, tuttavia, che possiamo assaporare, forse l’insegnamento più difficile da interiorizzare:   

Quando risalirono dall’acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l’eunuco non lo vide più; e, pieno di gioia, proseguiva la sua strada (At 8, 39).

Quella e non può non infastidirci. L’eunuco, battezzato, vede sottrarsi chi gli ha aperto la via, chi gli ha finalmente chiarito i dubbi, chi gli ha fatto comprendere quel libro bello, che però non riusciva pienamente a far suo. Noi ci aspetteremo sicuramente tanti sentimenti possibili: frustrazione, rabbia, delusione, indignazione, risentimento, smarrimento, persino paura. Invece no:  gioia. Di più:  pieno di gioia, proseguiva la sua strada.

Quante volte tendiamo ad impadronirci di chi ci educa? Ne parliamo come di un possesso, dando per scontato di poter vantare diritti speciali, privilegi. Che quella persona, che ci ha consentito di diventare migliore, sarà sempre disponibile per noi. E, se così non è, ci arrabbiamo.

È difficile, ma necessario, imparare ad avere, invece l’atteggiamento dell’eunuco. Accompagnare la curiosità intellettuale con la pragmaticità della risoluzione, ma – soprattutto – saper vedere l’altro come un dono e non come un possesso. Saper gioire del tempo trascorso insieme e di quanto si è imparato. Consentendo quella libertà per cui, non solo l’altro possa essere “strumento eletto” per terzi, ma – anche – che non tutti sono fatti per stare con noi per sempre, ma, magari sono provvidenziali per un giorno, una settimana, una stagione della nostra vita. Ed è bello che sia – semplicemente – così. Senza vedere la necessità di forzare oltre i tempi.


Letture festive ambrosiane, nella I domenica dopo la Dedicazione (At 8, 26-39; 1Tim 2, 1-5; Mc 16, 14b – 20)

Fonte immagine: Pexels

Approfondimento:
Rilettura in chiave moderna dell’episodio

 

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