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Viaggiare nel tempo. Avere a disposizione qualcosa che ci permetta di esplorare il passato e dare un’occhiata al futuro. Quanti non sarebbero tentati? È infatti uno dei più grandi desideri dell’essere umano, oltre che uno dei temi fantascientifici più gettonati di sempre, nella letteratura quanto nel cinema. Per il momento viaggiare nel futuro è qualcosa ancora al di fuori della nostra portata (ma la parte più nerd di me non rinuncia ad una flebile e folle speranza). È invece nelle nostre possibilità fare un tuffo nel passato, senza che sia necessaria chissà quale tecnologia d’ultima generazione.
Come? Dite che non ci credete?
Eppure una delle modalità è una prassi decisamente comune, anche se non la si può definire facile come bere un bicchiere d’acqua. Richiede una certa preparazione fisica e mentale, poiché il corpo umano viene sottoposto ad una serie di sollecitazioni che lo coinvolgono totalmente. Bisogna poi essere dotati di metodo e forza di volontà non indifferenti: durante le svariate operazioni richieste dal viaggio è necessario non farsi travolgere dalle emozioni che inevitabilmente vengono suscitate e tenere l’attenzione fissa alla mèta. Non è mai una buona cosa, infatti, rimanere incastrati in un’epoca che prosciuga ogni nostra altra attenzione, anche perché il ritorno al presente rischia di tramutarsi in un atto doloroso piuttosto che doveroso.
Il nome di questa prassi è altamente evocativo: trasloco. Richiama alla mente stalagmiti di scatoloni, profonde domande di senso – “possiamo buttare l’orrido soprammobile di zia Peppina?”* – e momenti in cui le suppellettili sembrano essersi moltiplicate più degli evangelici cinque pani e due pesci.
Se qualcuno mette in dubbio che esso sia un autentico viaggio nel tempo, provate a metterlo dinanzi ad una scatola in cui all’interno vi sono riposti alcuni quaderni delle scuole elementari, quella letterina di una nonna che ormai non c’è più, il diario delle superiori… Impossibile non soffermarsi su ognuno di essi, impossibile impedire alla mente e alle proprie emozioni di fare un bel triplo tuffo carpiato.
Tema, anno 1988, quarta elementare: “Domenica scorsa io e la mia famiglia siamo andati in gita in montagna; con mio zio ho raccolto un sacco di funghi e poi mi ha insegnato a giocare a bocce…” E d’improvviso senti nelle narici il profumo del sottobosco, mentre hai davanti agli occhi il boccino rosso fuoco che ti viene fatto lanciare su un prato verde in leggera pendenza.
Ciò che eravamo. Ciò che siamo. La vita che nel frattempo scorre non è un fiume che divide due sponde contrapposte, ma una strada dai mille sentieri che si dipanano e tornano ad incrociarsi di nuovo. Ciò che eravamo e ciò che siamo: quando l’uno si specchia nell’altro ne escono fuori sempre nuovi punti di vista sul presente ed anche qualche pillola di saggezza per il futuro. Quel che un tempo ci pareva insormontabile, una situazione senza via d’uscita, oggi viene ricordato come una deviazione di percorso che ci ha cambiato, a volte in meglio, a volte no. Non è un appello al famigerato senno di poi, con il quale tutti siamo capaci di trovare soluzioni che rasentano l’ovvio. Piuttosto un voltarsi indietro dopo un lungo cammino per fermarsi ad osservare, ad un certo punto, la strada percorsa.
Sono riuscito a passare quel passo impervio con le mie sole forze, wow, non l’avrei mai creduto! E in quel punto scosceso mi hanno aiutato i miei compagni di viaggio, come avrei fatto senza di loro? E là, per attraversare il torrente, non ringrazierò mai abbastanza chi ha tifato per me, incoraggiandomi a saltare sui sassi!
In questo mondo sempre di corsa, che chiede velocità in ogni azione del nostro quotidiano, fermarsi per volgere lo sguardo indietro – per fare un tuffo nel passato – dovrebbe essere una piccola abitudine da ritagliarci d’in tanto in tanto (no, non è necessario un trasloco ogni volta, per fortuna!). Lo dobbiamo a noi stessi, di ieri e di oggi. Non certo per crogiolarci nella nostalgia, ma piuttosto per prendere lo slancio per la vita che ancora ci aspetta.

 

*Nessun soprammobile di zia Peppina è stato maltrattato durante la stesura di questo articolo.

Il titolo dell’articolo è tratto da J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli.

In foto: Ein Avdat National Park, risalita del canyon, di Chiara Liberti.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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