Il Vangelo ci propone la vicenda del centurione. Si tratta di un soldato romano, in terra di Galilea. Un conquistatore, in una terra conquistata. Un forte, circondato da persone che non sono in grado di farsi valere. Per di più, è un pagano, un miscredente. In generale, per qualunque giudeo di buona fama, qualcuno da cui stare alla larga. Ed è il primo a saperlo. Quindi, non si azzarda a chiedere di incontrare Gesù, né che questi venga a casa propria. Si fida di quanto ha sentito. Si fida del potere divino del Cristo, della sua capacità e libera volontà di compiere miracoli e migliorare le condizioni di chi soffre.
Nonostante quanto detto, tuttavia, il suo è un caso particolare, tant’è vero che possiamo leggere una specificazione lusinghiera, sul conto di quest’uomo: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga». Così parlavano, riferendosi ad un romano, un appartenente al popolo occupante. Che, però, aveva saputo rendersi benemerito ai loro occhi, accorgendosi delle loro necessità e facendosi loro incontro.
«Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».
Mi auguro che queste parole possano risuonare come familiari, nonostante l’infausta traduzione subita, nella trasposizione liturgica del versetto, in cui compare, inspiegabilmente, la parola “mensa”.
Queste parole sono pronunciate da un soldato. Un soldato romano, di stanza in Galilea. Per questo, viene a conoscenza del nome di Gesù. Forse, la nomea è di chi compie miracoli, di chi è in grado di risanare. Per cui, probabilmente, se il servo non si fosse ammalato, quel nome non avrebbe rappresentato altro se non un pittoresco diversivo, di cui parlare con gli amici, volendo accennare alle stranezze del popolo ebraico, che “sforna messia a manciate”.
Di fronte al dolore, però, tante resistenze si piegano, persino il pudore si mitiga e si riesce accettare anche quell’azione ammazza-orgoglio che si chiama chiedere aiuto.
Sono parole bellissime, piene di fiducia. Tant’è vero che Cristo non solo se ne accorge, ma le indica a modello agli astanti:
All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!».
Sì, avete letto bene. Gesù lo ammirò. Gesù, il figlio di Dio. Gesù, Dio come il Padre ammira il centurione che è capace di chiedere aiuto e, quasi per non disturbare, non impone che Cristo lo venga a trovare, ma, anzi, in punta di piedi, domanda udienza, attenzione, ascolto della propria richiesta, nella speranza che non una sola delle proprie parole andrà sprecata.
E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.
Cristo è Verbo di Dio, Figlio del Padre, unico Dio in unità con lo Spirito Santo. Quindi, come capitato in altre occasione (cfr. l’episodio della donna cananea – Mt 15,21-28), non rappresenta un ostacolo la distanza fisica che separa Cristo dal servo del centurione. Lui è Parola Vivente e la Sua Parola è Verità (cfr. Gv 17). È Parola efficace, capace di creare e ricreare. La Capace di rigenerare quanto il Nemico può – al limite – rovinare.
Perché Satana, con tutto il suo potere, rimane pur sempre incapace di creazione ed invidioso di questa divina facoltà. Proprio per questo, vuole rovinare quella creazione, che non può generare dal nulla (ex nihilo). Oltre, non può andare. Oltre, c’è Cristo che sbarra la strada.
Negli occhi del centurione, c’è il coraggio della fede. Forse una fede ancora immatura, povera di contenuti ma ricca di aspettative. È il coraggio della fede che ammazza l’orgoglio. Quello che, forse, tante volte, ci sarebbe oltremodo utile. Per cominciare a vivere meglio.
Rif. Vangelo festivo ambrosiano, nella XII domenica dopo Pentecoste, anno B (Lc 7, 1-10):
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